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I “Mille” in Sicilia tra dramma e commedia. L’abbaglio raccontato da Ciccotti

Con «L’abbaglio» (2024), perfetto nella regia, curato nella fotografia e nei costumi, tratto da un racconto di Leonardo Sciascia, Roberto Andò racconta l’impresa dei Mille, da Quarto a Palermo, alternando sapientemente dramma e commedia. Un film dal finale a sorpresa

Ogni volta che si affronta un film “storico” le difficoltà sono dietro ogni pagina scritta della Storia ufficiale. Come centrare l’obiettività dei fatti? Come calibrare un realismo credibile? Come evitare la facile agiografia? Come raccontare di fatti conosciuti da un nuovo punto di vista? In che genere collocare un film “storico”? Solo dramma? Durante un conflitto, lo sappiamo, la vita continua, si sogna, si ama, qualcuno di dedica a piccoli furti (v. Il generale Della Rovere, 1959, R. Rossellini), talvolta si ride per sdrammatizzare. Tutti quesiti che gli autori della sceneggiatura di L’abbaglio (2024), film dedicato all’impresa dei Mille di Garibaldi, Roberto Andò, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, si sono posti in maniera documentata e creativa.

Facciamo un passo indietro. Nel 1933, all’epoca del nascente sonoro, in Europa si andava consolidando un nuovo realismo in diverse cinematografie, dalla Francia alla Polonia: di francesi Julien Duvivier, Jean Renoir, Jacques Feyder, al boemo Otakar Vávra, al serbo Mihajlo A Popovic, al polacco Josef Lejtes. Tutti avevano ammirato il realismo socialista sovietico degli anni Venti: Sergej M. Ejzenštejn, Vsevolod Pudovkin.

Alessandro Blasetti, all’interno di questa atmosfera, realizza 1860, dedicato alla impresa dei Mille. Un film poi riedito nel 1951, senza la coda finale, appiccicata per motivi di regime, in cui le camicie nere omaggiavano la statua di Garibaldi. 1860 sorprese la critica per l’asciutto realismo e i toni dimessi con cui si raccontavano le gesta dell’Eroe dei due Mondi, per i diversi attori “presi dalla strada”, che anticipavano il primo neorealismo del periodo 1945-1951, quello di Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Aldo Vergano, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani.

Roberto Andò, insieme ai suoi sceneggiatori, sicuramente (credo) si siano rivisti 1860. E bene han fatto, poiché se, nel film di Blasetti, Garibaldi appariva in quattro inquadrature e in campo medio qui, in L’abbaglio, riceve lo stesso trattamento in sottrazione.

Anche L’abbaglio propone un film corale, nel quale però bisognava dare spazio drammaturgico a tre star, che Blasetti non aveva: Toni Servillo, Salvatore Ficarra e Valentino Picone. Affiancati da attori della stessa levatura artistica, con minori pose, o pose più “concentrate”: primo fra tutti, Tommaso Ragno (Garibaldi), Leonardo Maltese (il giovane ufficiale Ragusin), Giulia Andò (suora e poi ex suora).

La delicatezza registica di Andò nel dirigere gli attori (ammirata nel perfetto La stranezza [2022]: forse il miglior film mai girato su Luigi Pirandello) fa sì che l’opera non perda, appunto, quella coralità che il tema dei Mille, con decine di attori in ruoli minori ma necessari, ma raggiunga una sinfonica armonia.

L’abbaglio, tratto da un racconto di Leonardo Sciascia, è, pur nella sua lettura finzionale degli avvenimenti, fedele ai fatti storici. Tecnicamente articolata la riproduzione della mossa diversiva di strategia militare sul campo, ideata da Garibaldi ma attuata dal colonnello Orsini, tra un esercito che “scappa” e l’altro che insegue. Con un inatteso epilogo nella piazza del paese di Sambuca, in cui la sceneggiatura riserva a Picone e Ficarra, ex disertori, un coup de théâtre fantastico: ai fini d’un completo recupero della dignità.

Il film tocca temi scottanti quali il rifiuto netto di Orsini di accettare l’“aiuto” mafioso di proprietari terrieri e delle loro guardie armate, in cambio di “cortesie”: questi si vendicheranno del rifiuto di Orsini appoggiando la rappresaglia dell’esercito borbonico nell’incendio di Corleone.

In una sua riflessione a voce alta Orsini dichiara la sua delusione per la mancata autentica rivoluzione sociale dei ceti poveri, per coloro che hanno combattuto e sono morti: le terre, incluse quelle pubbliche, rimangono amministrate dai proprietari (appunto: un “abbaglio” della Storia).

Del resto, il film fa capire quello che gli storici scrivono da anni: la distribuzione delle terre ai contadini (azione troppo rivoluzionaria: causò appunto il massacro di Bronte ad opera di Nino Bixio), avrebbe invalidato l’impresa dei Mille. Infatti, le potenze europee (Inghilterra e Francia, in quel momento osservatrici “neutrali”) accettavano sì una unione dell’Italia, ma sotto un regno, quello dei Savoia, non una rivoluzione sociale di taglio marxista. Consentire a Garibaldi di guidare una rivoluzione dei diseredati, sarebbe stato un “cattivo” esempio per le masse europee ancora sfruttate nelle fabbriche e nelle terre.

L’abbaglio mostra una cura certosina sia nella fotografia, soprattutto in interni illuminati a candela (grazie al maestro Maurizio Calvesi: il bilanciamento della luce della sala gioco, che nell’explicit ammiriamo in un totale tramite una gru, è spettacolare), nella studiata scenografia (Giada Calabria) e nei costumi, con alle spalle una ricerca seria (Maria Rita Barbera).

Un film quasi perfetto se non fosse caduto in alcuni luoghi comuni: le suore non interessate alla preghiera ma al gioco delle carte (con le parolacce); il «parrino» di Sambuca, un imbelle Don Abbondio, esageratamente comicizzato; Orsini che smonta l’amore puro del giovane Ragusin, invitandolo a «consumare» con la promessa sposa, prima del matrimonio: «ricordi, la vita va succhiata».

La ricerca, nel “finto” finale, a guerra finita, dei due ex traditori poi “eroi”, ora dispersi, da parte di Orsini, che vorrebbe ringraziarli, tocca le corde dello spettatore. Peccato poi segua uno spiazzante finale, non necessario.


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