Skip to main content

L’ora delle decisioni irrevocabili

C’è uno scandalo che è ben più scandaloso della vita sregolata del presidente del Consiglio italiano. È quello relativo alla gestione dei conti pubblici di un Paese che resta nel consesso del G8 più per inerzia che per capacità. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha molti meriti che certo non vanno taciuti o rimossi. Allo stesso modo, non si può non rimarcare che lo scotto che stiamo pagando in termini di rating e di spread non è il frutto di una improvvisazione o di errori che risalgono agli ultimi mesi. Il Paese – con il ministro, il governo, gran parte dell’opposizione e delle parti sociali – ha abbracciato in tempi non sospetti una politica di finanza pubblica che non poteva che condurre alle difficoltà di queste settimane. Lo denunciamo con forza e chiarezza perché su queste pagine lo scriviamo da anni, ormai. La classe dirigente italiana ha voluto cullarsi dei bassi tassi d’interesse per non aggredire l’enorme stock di debito pubblico. È accaduto così che le ingenti risorse provenienti da misure straordinarie (condoni, scudi, vendite di patrimonio) siano state utilizzate per ripianare il deficit. Neppure i tagli cosiddetti lineari – tanto deplorati ma forse inevitabili – sono stati utilizzati nel modo più corretto. Invece di aggredire la spesa corrente improduttiva (che è cresciuta), hanno inciso negativamente sulla spesa per investimenti. Cornuti e mazziati, si direbbe al meridione.
 
Le manovre di questi ultimi due anni sono state scritte sulla sabbia quando non improvvisate. Intenzioni buone o meno buone messe nero su bianco e il più delle volte non attuate, e comunque previste per rispondere alle sollecitazioni della Commissione europea. Il cosiddetto vincolo esterno è stato quasi cercato, come una medicina necessaria. Il paziente Italia invece di cercare la guarigione con un intervento chirurgico, ha preferito una cura farmacologica imposta da un dottore (l’Europa, i mercati) che non si preoccupava degli effetti collaterali. Il risultato è che l’intervento risulta comunque ineludibile però le condizioni del malato sono più gravi, anche perché le medicine ne hanno sfiancato il fisico (ovvero l’economia reale). La gravità della situazione è che nonostante le denunce – si rileggano in questo senso i numeri di Formiche degli scorsi anni – si continua a far finta di niente. Si continua a rinviare tutto, sperando che la situazione politica possa essere più favorevole.
 
L’egoismo è un lusso che non possiamo permetterci. Il lassismo sul debito pubblico rappresenta una vergogna assoluta. Si poteva e si doveva intervenire. Si può e si deve farlo il prima possibile. Scaricare sulle generazioni che verranno i propri debiti, peraltro a tassi più alti di quelli del mercato (questo è il risultato che si ottiene con il rialzo degli spread), è semplicemente immorale. Pensare che un approccio contabile per l’aggiustamento del bilancio annuale con un risultato di presunto pareggio possa essere sufficiente significa offendere la nostra intelligenza. Occorre riformare il perimetro della presenza dello Stato. Come in ogni azienda degna di questo nome, deve essere chiaro chi fa cosa. Il federalismo non può essere una bandiera nelle mani irresponsabili di una forza politica che poi moltiplica i costi con le sedi al nord dei ministeri e con i mancati interventi su Province e municipalizzate. Per troppo tempo, e ancora adesso, presidente del Consiglio e ministro dell’Economia hanno sacrificato l’interesse nazionale sull’altare della Padania (sic!).
 
L’improvvisazione ha portato a prendere una decisione forte e probabilmente inevitabile: l’aumento dell’Iva. Anche in questo caso però è stata fatta una scelta giusta nel modo sbagliato. Doveva essere una parte importante di una riforma del fisco. Si poteva immaginare una imposizione diversa, persino maggiore se necessaria, ma comunque legata ad interventi di taglio o riorganizzazione di tributi come l’Irap. Non si può fare a meno di una visione. Bisogna avere degli obiettivi. Il primo naturalmente è il debito, il secondo è il deficit, il terzo, ma non meno decisivo, è la crescita. Questa, è vero, non si fa per decreto e non può essere uno slogan. È piuttosto una questione di awereness. Dobbiamo sapere tutti – governanti, imprese, sindacati, giornalisti, magistrati e cittadini – che non c’è sviluppo economico senza un adeguato tessuto produttivo. Essere coscienti che chi fa seriamente industria in Italia è un eroe e non un demone è già un passo in avanti. Altro che Robin Hood sulle imprese o la sindrome del “no a tutti i costi”. Invece dell’ancora grasso assistenzialismo di Stato nei confronti delle aziende, facciamo un piano per rendere appealing il rientro di quegli impianti produttivi che negli ultimi dieci anni hanno abbandonato l’Italia per trasferirsi nei vicini Paesi dell’Europa o in quelli più lontani in Asia.
 
La cultura del lavoro non è solo quella dei diritti. Il lavoro è fatica, ma anche sorgente di ricchezza per sé e per la collettività. La narrazione dell’ozio creativo aveva un suo perché ma in Italia ha prevalso l’ozio e basta. Lavoriamo poco, o meglio: lavoriamo tanto ma in pochi. Da questo punto di vista hanno responsabilità enormi anche le parti sociali oltre che un modello televisivo e sociale che ha privilegiato la scorciatoia al sudore. L’educazione civica è una materia che conviene economicamente riscoprire. L’elusione e l’evasione non sono solo l’effetto di un patto Stato-cittadini ormai privo di senso (andrebbe riscritto per intero), sono anche conseguenza di una mancata o gravemente compromessa coscienza dei propri doveri. Insomma, ci sono tante misure che possono essere adottate, ma non avrebbero efficacia senza un adeguato contesto politico ed istituzionale. È dal reset che bisogna partire. Quando si dice che un regime change in Italia avrebbe effetti positivi sui mercati non si evoca uno scenario da golpe. Si dice semplicemente, forse troppo, una facile verità.
Il re è nudo.


×

Iscriviti alla newsletter