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Il caso Almasri è una partita di calcio senza precedenti. La versione di Polillo

Alla luce del quadro normativo, c’era forse bisogno di alimentare una querelle come quella che si è vista in Parlamento? ll commento di Gianfranco Polillo

Il caso di Osama Almasri continua a far discutere. Mai una partita di calcio ha determinato simili conseguenze. Se il generale libico avesse rinunciato alla passione calcistica e rimasto in Germania, tutto questo non sarebbe successo. E invece non solo è accaduto, ma il caso rischia di deflagrare in una serie di episodi secondari: destinati a rendere più rovente il clima e alimentare lo scontro di tutti contro tutti. Sullo sfondo, l’intervento di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, che, a reti quasi unificate, annuncia di aver ricevuto l’avviso di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato. Avviso che non riguardava solo la sua persona, ma si estendeva ai ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio e al sottosegretario Alfredo Mantovano. Un vero e proprio poker d’assi destinato ad azzoppare l’intero governo, almeno fin quando il Tribunali dei Ministri non metterà fine a questa incresciosa vicenda.

A latere lo scontro sempre più duro con una parte della magistratura decisa a difendere con le unghie e con i denti il proprio potere di interdizione, negando valore a quella proposta di riforma che dovrebbe dare attuazione alle regole del “giusto processo”. “Ogni processo”, è stabilito dall’articolo 111 della nostra Costituzione, “si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.” Intanto la vicenda si colorava di grottesco. Si scopriva, infatti, che il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, cui si deve l’iniziativa dell’iscrizione nel registro degli imputati sulla base della denuncia di un avvocato legato alla politica politicante, ce l’aveva con Mantovano perché quest’ultimo gli aveva negato l’uso del jet privato – a spese ovviamente dello Stato – per i suoi spostamenti tra Roma e Palermo. E anche qui polemiche a non finire: Giovanni Falcone era solito prendere quel mezzo, dice Marcello Sorgi a Porta a porta per poi ritornarci in un articolo sulla Stampa. Perché lui sì e Lo Voi no? Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo, tuttavia, i consiglieri laici del Consiglio superiore della magistratura proponevano di aprire una pratica disciplinare nei confronti del fraccomodo procuratore.

In tanto bailamme è sempre più difficile orientarsi. Meglio allora tornare ai fondamentali. I rapporti tra la legislazione italiana e la Corte dell’Aia sono regolati dalla legge 237 del 2012 (Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale). I rapporti con la Corte sono tenuti “in via esclusiva” dal ministro della giustizia (articolo 2), il quale (articolo 5 comma 2) qualora ritenga che determinati atti “possano compromettere la sicurezza nazionale” può sospendere l’espletamento di tutte le attività inerenti quel rapporto. Alla luce di queste disposizioni è difficile immaginare di poter di coinvolgere nell’affaire altri ministri, per non parlare del Presidente del Consiglio. Che competenza esclusiva sarebbe quella, se poi alle relative decisioni potessero intervenire altri membri del governo?

C’è poi una seconda questione. Il ministro della giustizia aveva la facoltà di agire, come ha agito: prerogativa attribuitogli dalla legge. Naturalmente si può dissentire, ma non arrivare fino al punto da fargli recapitare un avviso di garanzia per reati di favoreggiamento. E qui si apre un altro capitolo. Bene – dicono le opposizioni e non solo – è comprensibile il riferimento alla sicurezza nazionale, ma allora il governo lo deve dichiarare formalmente nelle Aule del Parlamento. E se ciò non avviene, è giustificato ricorrere a un piccolo Aventino. Sennonché l’idea di una trasparenza integrale, in tema di sicurezza nazionale, è un vero e proprio ossimoro. Qualcosa che non è mai esistita nella secolare storia delle democrazie occidentali e non solo: che si sono sempre attenute alla massima riservatezza. Fino a sfiorare l’omertà.

Il legislatore, consapevole della delicatezza della questione, aveva provveduto da tempo a disciplinare l’intera materia trovando, a giudizio di chi scrive, un equilibrio soddisfacente tra le esigenze di riservatezza e quelle del controllo delle attività dell’esecutivo in senso lato (compresi i servizi segreti). L’intera materia è stata regolata dalla legge 3 agosto 2007, numero 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto). La soluzione individuata: la costituzione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) organo squisitamente parlamentare, composto da cinque deputati e cinque senatori, nominati, all’inizio di ogni legislatura, entro venti giorni dalla votazione della fiducia al governo – si noti la tempestività –, dai presidenti dei due rami del Parlamento in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari. È garantita la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni. In base all’articolo 36 tutti coloro che operano all’interno del Comitato sono tenuti al segreto.

Se questo è il quadro normativo, c’era forse bisogno di alimentare una querelle come quella che si è vista in Parlamento? Tanto più che, prima di ricevere l’avviso di iscrizione nel registro degli imputati, sia il ministro dell’Interno che quello della Giustizia si erano dichiarati disponibili a fornire un’informativa sulla vicenda. Una volta saltato l’impegno, bastava che il Comitato li avesse convocati, per ottenere tutte le informazioni necessarie senza per altro esporre l’Italia sul piano internazionale. Né ledere – data la segretezza – i diritti dei possibili imputati, nella successiva sede giudiziaria. L’opposizione ha, invece, scelto una strada diversa, sollevando questioni di principio dallo scarso fondamento. Naturalmente ci può stare. Non spetta, infatti, a noi giudicare. A cronisti quali siamo, tuttavia, non è sfuggita la diversità di atteggiamenti che si sono manifestati al suo interno. Fino al punto da far sorgere il sospetto che contemporaneamente si stesse giocando anche un’altra partita. Oltre i confini della normale dialettica maggioranza – opposizione.

Il Partito democratico, con la sua segretaria Elly Schlein, si è mostrato, infatti, defilato. Il minimo sindacale nella polemica con il Governo, invocando temi in gran parte estranei all’argomento. Motivo di imbarazzo? Forse si: non si dimentichi chi furono gli artefici della politica a favore della Libia. Vale a dire Paolo Gentiloni, allora presidente del Consiglio, e Marco Minniti, ministro dell’Interno. Entrambi – più il secondo del primo – costretti a trattare con lo stesso Almasri, immarcescibile generale responsabile dei tanti crimini che, oggi, gli sono stati attribuiti. E allora è facile vedere il gioco di chi vorrebbe conquistare quei territori che la sinistra tradizionale, per le sue interne contraddizioni, non riesce a presidiare. O lo fa con crescente difficoltà.

Ha fatto una certa impressione vedere una signora come Chiara Appendino indossare le vesti di Dolores Ibárruri. La pasionaria di Spagna, grande combattente antifascista, di origine basca. Una vita trascorsa tra rivoluzioni, carceri e impegno politico nelle file del partito comunista. Fino alla morte, avvenuta a Madrid, all’età di 93 anni, dopo il suo lungo soggiorno, esilio nell’Unione Sovietica. Quelle grida incontenibili contro un assassino, uno stupratore, erano un evidente richiamo che metteva in evidenza le difficoltà del più forte partito dell’opposizione. Impossibilitato a seguirla sulla stessa strada. E poi che dire dell’altro competitor, Angelo Bonelli, nei panni di un moderno Torquemada. Anche lui alla ricerca di uno spazio politico nel grande mare agitato di una sinistra che sembra aver definitivamente smarrito il senso delle proporzioni. Per ricercare in ogni singolo episodio, la legittimazione della propria esistenza.


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