L’idea inglese di uno spazio dedicato alle aziende, non solo tecnologiche. L’Italia potrebbe sicuramente giocare un ruolo di rilievo, ma è tuttavia da escludere la capacità da parte del nostro Paese di riuscire a raccogliere gli investimenti necessari e utilizzarli per creare un’area che, per regolamentazione e per disciplina fiscale, possa assumere il ruolo di guida dell’imprenditoria privata innovativa. Il commento di Stefano Monti
Rachel Reeves, Cancelliere dello Scacchiere inglese ha annunciato misure volte a dare un nuovo slancio all’economia britannica e interrompere il percorso di stagnazione. Tra le anticipazioni, Reeves non ha mancato di includere la possibilità di realizzare la Silicon Valley d’Europa tra Oxford e Cambridge. Malgrado si tratti di una dichiarazione accolta non senza scetticismo, l’ipotesi che sia la Gran Bretagna una ipotetica Silicon Valley d’Europa è un elemento che merita senza dubbio una riflessione da parte degli altri stati del vecchio continente. L’ipotesi di una nuova Silicon Valley è infatti un elemento che permette di aprire uno scenario: non solo la Silicon Valley (quella originale) può essere replicata, ma può essere fatto anche in un contesto differente dagli Stati Uniti.
Condizione che, in un contesto in cui il presidente Usa adotta strategie protezionistiche, potrebbe risultare di particolare interesse. Malgrado il mondo anglosassone rappresenti l’ecosistema culturale naturale delle start-up, vale tuttavia la pena riflettere sull’opportunità di costruire delle nuove Silicon Valley che tuttavia, siano localizzate in Paesi con una cultura probabilmente meno competitiva della Gran Bretagna, ma in grado di raggiungere in modo più diretto, altre aree del mondo. Una differenza culturale che potrebbe influire in modo molto positivo sui rapporti e sulle relazioni anche tra UE e Paesi confinanti.
In questo senso, l’Italia potrebbe sicuramente giocare un ruolo di rilievo, ma è tuttavia da escludere la capacità da parte del nostro Paese di riuscire a raccogliere gli investimenti necessari, e utilizzare tali investimenti per creare un’area che, per regolamentazione e per disciplina fiscale, possa assumere il ruolo di guida dell’imprenditoria privata innovativa (e non solo tech). Una strategia alternativa potrebbe essere la definizione di un progetto mitteleuropeo, al fine di sviluppare una connessione, anche logistica, tra i grandi capitali industriali e le nuove forme di imprenditoria. Una soluzione che tuttavia, potrebbe risultare poco efficace, sia per una dimensione di orientamento culturale, sia per una dimensione di espansione delle economie comunitarie.
Una scelta più coraggiosa, ma probabilmente anche più efficace, potrebbe invece essere una visione di sviluppo transfrontaliero basato sull’imprenditoria e sull’alta formazione. Una condizione che favorirebbe sia le dimensioni economiche e finanziarie, sia (e soprattutto) le dimensioni culturali. Guardando alle dimensioni economico-finanziarie, infatti, se si guarda alla mappa dell’Europa che evidenzia il pil-pro capite di ogni regione, emerge in modo chiaro che, al netto di particolari condizioni, la ricchezza tende ad essere tendenzialmente più elevata nelle regioni più centrali, e ridursi nelle aree più periferiche.
Sviluppare l’estensione dell’influenza economica, favorendo la crescita di ricchezza ai margini e in alcuni casi anche al di fuori del perimetro comunitario, può sicuramente favorire lo sviluppo di quelle aree geografiche ora più decentralizzate che, sviluppandosi, porterebbero le aree ad oggi periferiche a vivere un momento di nuova centralità (come il nostro sud, la Croazia, e la penisola balcanica per il lato mediorientale ed euroasiatico e la Spagna il Portogallo sul versante nord-africano), incrementando la ricchezza totale del territorio dell’Unione e favorendo ulteriori investimenti.
Tale attività, inoltre, al di là dell’aspetto meramente quantitativo, potrebbe avere un ancor più rilevante peso sotto il profilo dello sviluppo di nuove connessioni e integrazioni tra aree del mondo, sviluppando connessioni con aree del mondo che non di rado hanno presentato un rapporto critico nei riguardi dell’influenza statunitense. Lo sviluppo di centri di innovazione comunitari, potrebbe quindi essere una delle principali azioni di innovazione economica dell’Unione Europea, agevolando lo sviluppo di un’economia avanzata non soltanto in termini tecnologici, e contribuendo a sviluppare connessioni culturali attraverso le quali sviluppare una concreta cooperazione intorno a temi di comune interesse.
Accanto a tale operazione, e complementare ad essa, sarebbe importante sviluppare una serie di centri di alta formazione Europea da sviluppare, in collaborazione con le principali Università dell’Unione, al di fuori dei confini comunitari, per stimolare la partecipazione attiva e qualificata da parte di quei Paesi che presentano alcune delle età mediane più basse del mondo, e favorire così l’ingresso di popolazione qualificata, giovane, innovativa, e, al contempo, generare un più importante afflusso di capitali da Paesi terzi. La cultura europea, così tanto proclamata all’interno di tutti i progetti e i programmi di investimento comunitari, è ancora ben lontana dall’essersi pienamente affermata. Questo conduce ad una condizione che presenta sicuramente delle importanti criticità, ma anche delle opportunità considerevoli.
Una cultura europea ancora non pienamente sedimentata ci pone nella condizione di partecipare attivamente alla sua definizione: tutte le nostre grandi narrazioni attingono ad un immaginario molto recente al riguardo, e ciò significa che nuove narrazioni sono ancora possibili. Di certo le criticità non mancano, e tra queste rientra anche la tendenza, da parte dell’Unione Europea ad immaginare strumenti e azioni che non sempre sono realmente efficaci.
Sotto il profilo culturale, infatti, non si può ignorare quanto la diffusione delle influenze sia stata completamente disintermediata e come, parallelamente o forse conseguentemente, molti dei punti di riferimento abbiano perduto l’influenza che avevano anche soltanto mezzo secolo fa. La religione, la filosofia, la politica, la letteratura e l’intero sistema “intellettuale” hanno via via abdicato al proprio ruolo di guida a vantaggio di una produzione di contenuti sempre più diffusi, favorendo l’emersione persuasiva di fenomeni di tipo economico e di produzione massiva e decentralizzata di entertainment. Pur restando centrale nello sviluppo dell’individuo e della collettività, la cultura non può arginare il proprio raggio d’azione alle sole dinamiche contenutistiche, ma deve introdursi all’interno degli altri settori dell’agire umano.
Immaginare una politica culturale comunitaria che non tenga conto delle dimensioni economiche e finanziarie, degli scenari demografici e sociali riflette una visione di cultura che, pur celebrando la sua volontà di uscire al di fuori delle istituzioni, non ha mai davvero iniziato a guardare alle persone che di quella cultura dovrebbero essere portavoce e che da quella cultura dovrebbero sentirsi rappresentate. Per consolidare davvero una cultura comunitaria, bisogna definire le azioni che consentano ai vecchi e ai nuovi europei di sviluppare una serie di abitudini, di interpretazioni del mondo e di attitudini comuni.
Attitudini e sistemi valoriali che poi possano essere rappresentate da nuove produzioni culturali, che possano a loro volta influenzare e radicare quegli elementi da cui tali produzioni hanno tratto origine. Forse, ma è soltanto una possibilità, valorizzare lo sviluppo sociale ed economico potrebbe rivelarsi una delle strategie culturali più efficaci che ci possano essere. Perché l’arte, la cinematografia, il teatro, le produzioni tecnologiche innovative, i videogame, e in genere tutte le produzioni che oggi vengono ricondotte alle industrie culturali e creative, sono le espressioni di una data cultura e di una data popolazione in un dato momento storico. Noi invece agiamo, politicamente, e finanziariamente, come se fosse vero il contrario.