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Chi vince e chi perde con il ritorno ai dazi. L’analisi del prof. Zecchini

Il mercato americano costituisce per peso il terzo mercato di sbocco del Made in Italy. La gamma dei prodotti è molto ampia con una larga partecipazione di imprese. È quindi nel nostro interesse non brandire in sede europea l’arma delle contromisure, ma insistere nel dialogo e nell’attuazione di interventi e riforme volti a rilanciare una crescita endogena. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista dell’Ocse

Puntualmente, come aveva annunciato da tempo, il presidente Trump ha iniziato a erigere alte barriere tariffarie alle importazioni dai paesi da cui dipende attualmente il sistema produttivo americano. A parte l’acciaio, i farmaceutici e i prodotti petroliferi, non è ancora noto l’elenco completo dei prodotti su cui l’onere si applicherà e con quali esenzioni, né se riguarderà la parte più consistente delle importazioni di beni. Ma la dimensione dei nuovi dazi, che si aggiungono agli esistenti, è tale da provocare ripercussioni importanti di ampia portata, che vanno oltre i tre paesi colpiti, Messico, Canada e Cina.

È un messaggio forte ai maggiori paesi esportatori verso gli USA per affermare che l’ordine commerciale mondiale, basato dal 1995 sulle regole del Wto per la liberalizzazione multilaterale degli scambi e sulle sue procedure per sanare le controversie, non è più valido per gli americani. Né lo sono i suoi Trattati di libero scambio con gli altri due paesi nordamericani, perché tutto è rimesso ai nuovi rapporti bilaterali da ricostruire in un contesto in cui gli Usa faranno valere il loro peso preponderante.

È anche un cattivo esempio per le altre due potenze autoritarie, Cina e Russia, che vi vedranno un incentivo a fare leva sempre più sulla loro forza per imporre agli altri paesi la supremazia dei loro interessi sia in campo economico, sia nelle altre relazioni internazionali. Apparentemente le ragioni addotte per il nuovo protezionismo americano sono in particolare il grande afflusso di immigranti irregolari e di droghe dai paesi colpiti. La ragione più profonda è piuttosto che agli occhi di Trump e di molti americani la liberalizzazione dei commerci e la globalizzazione delle relazioni economiche che hanno sostenuto il notevole sviluppo dell’economia mondiale nello scorso trentennio, sono avvenute a spese del loro benessere. Il loro mercato è divenuto terra di conquista tanto per le economie emergenti quanto per le sviluppate. Invero, gli Usa costituiscono il maggiore importatore al mondo di beni, con un flusso di oltre 3,2 trilioni nel 2022, di cui il 16,8% proveniente dalla Cina (536 miliardi).

Dal Messico hanno importato beni per oltre 455 miliardi, con una quota di poco superiore al 14%, mentre dal Canada hanno acquistato beni per 437 miliardi, 13,6% dell’import totale. Dalla Cina hanno importato oltre due volte in più di quanto vi hanno esportato e registrano il maggiore deficit commerciale (382 miliardi). Meno squilibrato è il deficit verso l’Ue, che rappresenta il maggiore partner commerciale, con importazioni per 553 miliardi ed esportazioni per 351 miliardi. Al tempo stesso gli Usa sono grandi esportatori di servizi verso i due paesi nordamericani e l’Ue, ma complessivamente i suoi scambi con l’estero incidono sul Pil in misura contenuta (27,5%), diversamente dall’Ue che presenta un notevole incidenza (97,2% nel 2023). L’interscambio di beni con l’Italia ha superato i 100 miliardi nel 2024 con un disavanzo attorno a 42 miliardi.

L’importanza degli scambi commerciali con questi paesi è notevole ed assume i caratteri di una vera integrazione dell’economia americana particolarmente con le altre due nordamericane. Di fatto zone degli Usa per ragioni tra l’altro di vicinanza geografica trovano più conveniente acquistare presso il partner oltre frontiera piuttosto che all’interno. Le nuove barriere tendono a sconvolgere questa integrazione, mettendo a rischio molte importanti filiere produttive per tutto il tempo durante il quale non se ne costituiranno di nuove, non necessariamente sul territorio americano.

Lo sconvolgimento riguarda tutte le produzioni manifatturiere e di prodotti strategici che dipendono da fornitori cinesi o messicani. Costoro coprono attualmente un’ampia gamma di beni di consumo, anche durevoli, e di componentistica industriale e digitale, permettendo alle imprese americane di restare competitive incorporando componenti di derivazione cinese. Le hanno anche indotto a concentrarsi su produzioni a maggiore valore aggiunto, lasciando fette del mercato a quelle cinesi o messicane, in cui queste ultime hanno un imbattibile vantaggio di prezzo.

Nel breve termine, i nuovi dazi spingono al rialzo i prezzi interni degli Usa, benché non in maniera uniforme tra prodotti, in quanto l’effetto finale dipende dall’elasticità di prezzo della domanda americana e dalla rapidità di sostituzione di un fornitore estero con altro, interno o estero, dal costo equivalente. Per i prodotti petroliferi, che sono caratterizzati da una domanda poco reattiva ai rincari nel breve termine, l’effetto sarà più intenso in quanto un’importante quota è importata dai due paesi colpiti.

L’impulso all’inflazione deriva anche dalla contemporaneità dei rincari alla frontiera con l’espulsione degli immigrati illegali, che da decenni danno un importante apporto di lavoro a basso costo nelle produzioni agricole ed alimentari, nella manifattura e nei servizi. Se l’elettorato di Trump si attende che faccia in modo di frenare l’inflazione per i loro consumi correnti, inclusa l’energia, non tarderà molto ad accorgersi che le prime misure prese dal loro eletto avranno l’effetto contrario. I rincari sarebbero, invece, meno intensi se il fornitore estero decidesse di non trasferire sui prezzi in tutto o in parte il maggior costo del dazio per compensare il rischio di perdere il cliente americano. Questo è il caso di domanda molto elastica o di agevole sostituzione con altro fornitore.

Sul piano internazionale è incerto se il protezionismo americano darà avvio a un’ondata di contromisure e a un crescente frazionamento del mercato mondiale in zone di libero commercio tra Stati. Meno incerta la crisi che si determinerebbe per le istituzioni responsabili dell’ordinato svolgimento dei commerci internazionali, in specie il Wto. La rilevanza del loro ruolo di tutori delle regole del libero commercio e di arbitri imparziali nelle contese ne esce grandemente ridimensionata. La tendenza alla segmentazione del mercato mondiale si rafforzerebbe. L’unità dei mercati mondiali per le quotazioni dei prodotti primari e dell’energia potrebbe infrangersi se prezzi differenti fossero applicati a diversi paesi a seconda del grado delle loro restrizioni commerciali. Un primo segnale si è già visto a seguito delle sanzioni alla Russia, con vantaggi per quanti continuano a commerciare con quel paese e svantaggi comparativi per gli altri. In ogni caso le economie dei paesi in via di sviluppo risentirebbero negativamente del contrarsi degli scambi e di riflesso della crescita mondiale.

Ma anche il sistema produttivo americano subirà conseguenze negative in aggiunta all’inflazione, perché indurrà a impegnare risorse in maniera meno ottimale per dedicarsi a produzioni meno pregiate ma pur sempre necessarie. Va pure considerato che riducendo l’immigrazione si contrae l’incremento demografico che a sua volta si ripercuote sulla crescita economica. L’eventualità di una guerra commerciale su scala mondiale appare, tuttavia, ridotta nonostante le prime reazioni dei paesi colpiti. Benché Trump abbia smentito che i nuovi dazi siano uno strumento per indurre a negoziare, lasciando intendere che potrebbero essere permanenti, saranno le pressioni delle imprese americane più colpite, tra cui i colossi del digitale e della manifattura, a indurre il Presidente a trattare.

Gli scenari per l’Europa appiano altrettanto incerti, in considerazione dei legami geopolitici che la lega agli Usa e a causa dell’importanza del mercato americano sia per esportare, che per importare. Lo spazio per ritorsioni commerciali di fronte a nuovi dazi appare esiguo, ma non inesistente, perché se queste fossero sostanziali, avrebbero effetti controproducenti verso il grande paese alleato, da cui dipende tra l’altro la sicurezza nei confronti di aggressioni esterne. Ma nemmeno si può accettare facilmente la richiesta americana di acquistare un maggior volume di prodotti indipendentemente dalla loro convenienza economica. Sarebbe oltre tutto difficile assecondarla in una fase economica di bassa crescita, in cui si avverte la debolezza della domanda interna e degli investimenti.

Il messaggio di Trump all’Ue potrebbe interpretarsi meglio nel senso di aprire ancor più il mercato interno ai prodotti americani, di promuovere la ripresa della crescita economica con misure strutturali e riforme, e di accollarsi un più consistente onere nel provvedere alla propria difesa. Sono richieste che cozzano col programma di misure per la competitività che la Commissione Europea ha presentato pochi giorni fa. Prevede, in particolare, preferenza europea nelle commesse pubbliche e negli acquisti per la difesa, strumenti per trattenere i risparmi all’interno dell’Unione per finanziare i maggiori investimenti, azioni di contrasto al dominio dei giganti del digitale e contromisure verso i paesi che osteggiano le imprese europee.

Nel trattare con gli americani l’UE può, peraltro, far valere che il disavanzo commerciale è inferiore a quello con gli altri grandi partner dell’America, che è in parte dovuto al differente ritmo di espansione della domanda e della crescita nelle due aree, che ha già incrementato l’acquisto di Gnl e altri prodotti petroliferi dagli USA per soppiantare l’import dalla Russia e che la forza del dollaro tende ad avvantaggiare i fornitori esteri. Un’altra considerazione da sollevare è la convergenza di interessi nel trattare con Pechino per l’apertura del suo mercato e per ottenere parità di trattamento delle proprie imprese con quelle cinesi. L’Unione ha anche a disposizione la possibilità di offrire una più intensa cooperazione con gli Usa in politica estera, nella ricerca tecnologica, nell’esplorazione spaziale e in altri campi.

Le misure di Trump espongono l’Unione anche ad altri rischi. A seguito del protezionismo americano, potrebbe perdere capacità produttiva a causa del trasferimento oltreoceano degli investimenti di grandi imprese per ovviare ai dazi e sfruttare il dinamismo della crescita americana. Potrebbe, inoltre, trovarsi a dover fronteggiare un maggior afflusso di prodotti cinesi e latino americani che non riescono ad avere il consueto sbocco sul mercato americano. L’eccesso di produzione invenduta tenderebbe a essere riversato quasi in dumping sui mercati europei, costringendo l’Ue a introdurre nuove restrizioni commerciali. Sarebbe in ogni caso importante per l’Europa impegnarsi a ristabilire nel quadro di una rinnovato Wto uno stabile ordine di regole condivise e nel contempo negoziare con altre aree economiche accordi di libero scambio e trattati commerciali con l’obiettivo di contenere le spinte al protezionismo ed allargare lo spazio per commerciare.

L’Italia ha reagito alle misure americane con toni concilianti ed apertura al dialogo. Entrambi rappresentano la soluzione più opportuna, considerato che ogni altra alternativa avrebbe costi elevati e pochi benefici. Il mercato americano costituisce per peso il terzo mercato di sbocco del Made in Italy. Vi vendiamo macchine, farmaceutici, veicoli, imbarcazioni, equipaggiamenti elettrici ed elettronici, beni strumentali, moda, prodotti dell’industria alimentare, chimici e molto altro. La gamma dei prodotti è molto ampia con una larga partecipazione di imprese. È quindi nel nostro interesse non brandire in sede europea l’arma delle contromisure, ma insistere nel dialogo e nell’attuazione di interventi e riforme volti a rilanciare una crescita endogena.


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