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L’Ue deve evitare la guerra commerciale con gli Usa. Polillo spiega come

L’Occidente rischia l’accerchiamento da parte di potenze ostili, che mal ne sopportano la lunga egemonia storica. Il suo pivot, ancora oggi è rappresentato dal rapporto Stati Uniti-Europa Occidentale. Segare quel ramo su cui entrambi sono seduti sarebbe pertanto una follia. Ma se questa è la posta in gioco, i compiti della Ue non possono limitarsi all’acquisto di qualche prodotto in più. L’analisi di Gianfranco Polillo

Ma quale guerra commerciale tra gli Stati Uniti e l’Europa! Solo pensarlo sarebbe una grave iattura. Rischierebbe di marcare la rivincita dei Paesi post comunisti, sconfitti da quella storia, che non è per niente finita. Il che spiega perché qualcuno spera, invece, che allo scontro ci si arrivi e fa di tutto per caricare l’opinione pubblica nel segno del wishful thinking. Sogni che si avverano. D’accordo, quindi, con il ministro degli esteri Antonio Tajani che questa prospettiva vuole scongiurare.

Ma auspicare, purtroppo, da solo non basta. E allora è necessario rintracciare le motivazioni economiche e finanziarie che tale prospettiva possono rendere possibile. Individuando le ragioni dell’uno e quelle dell’altro, per costruire su questa solida base più che un compromesso, strategie compatibili, se non complementari. In passato, a partire dal Piano Marshall, questo miracolo fu reso possibile dalla convergenza degli interessi: le industrie americane che dovevano riconvertirsi dopo lo sforzo bellico, l’Europa che doveva essere ricostruita, in alcuni casi dalle fondamenta.

Il principale cruccio di Donald Trump è dato dal forte deficit commerciale e dal più generale contesto internazionale. Due le principali preoccupazioni: onorare la cambiale elettorale emessa a favore degli Stati del rust belt (la cintura della ruggine), nella zona dei Grandi Laghi, che lo avevano portato al successo. Contrastare alcuni elementi di fragilità che, soprattutto sul piano finanziario, sono di ostacolo ad una politica di potenza. Si pensi solo al blocco delle attività amministrative previsto dall’Antideficit Act.

Gli ultimi dati danno fondamento a quelle preoccupazioni, specie se si considera il più generale contesto internazionale. Secondo il Fmi gli Stati Uniti sono alla testa della top ten dei Paesi con il maggior squilibrio nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Nel solo 2023 era stato pari a meno 905,4 miliardi di dollari. Per contro la Germania si collocava in una posizione diametralmente opposta, con un surplus che la poneva al primo posto della relativa classifica, con un attivo pari a 262,6 miliardi di dollari. Superiore anche a quello della Cina.

Ancora più preoccupante l’accumulo di debiti nei confronti dell’estero. La relativa posizione patrimoniale netta mostrava uno squilibrio pari al 70 per cento del Pil. Qualcosa come 19,8 trilioni di dollari. Mentre l’attivo europeo vantava un valore pari a 434 miliardi. Con la Germania, anche in questo caso in testa, con 3,4 trilioni di dollari. Quasi otto volte l’attivo del Continente. Elementi tutti destinati a far risaltare, in negativo, la dinamica del debito pubblico, che negli Usa, lo scorso anno, aveva raggiunto il 124,1 per cento, contro un valore medio europeo dell’89,1 per cento.

Che vi sia quindi un fondamento nelle preoccupazioni del presidente americano è difficile negare. Anche se il relativo stato d’animo non è sufficiente a giustificare un’eventuale politica protezionistica. E non basta per due motivi: perché non ha risolto il problema in passato. Quando nel corso del suo primo mandato (2017/21) impose dazi a destra e sinistra. Tant’è che oggi il problema gli si ripropone. E perché una decisione eminentemente congiunturale, come può essere un dazio comunque limitato nel tempo, non può risolvere un problema di natura strutturale.

Dal 1980 in poi, infatti, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti americana è stato sempre in rosso, salvo che nel biennio 1981/82 e nel 1992. L’annus horribilis fu il 2008, in coincidenza con l’avvio della GFC (Global Financial Crisis), quando toccò quota meno 5,9 per cento del Pil. Una permanenza così elevata da far dubitare dell’esistenza di quegli stabilizzatori automatici destinati ad intervenire in analoghe situazioni: quando gli altri Governi furono costretti a prendere misure di carattere correttivo.

L’anomalia americana, perché di questo si tratta, è racchiusa in una sola parola: dollaro. Principale moneta di riserva e di intervento, costituisce la base del commercio internazionale. Garantisce al Paese emittente il godimento del diritto di signoraggio. Vale a dire una serie di privilegi, che altri non hanno. Tra questi una maggiore libertà nel governo delle fasi ciclo. Non avendo la necessità di ricorrere a misure restrittive nel caso di un deprezzamento della propria moneta a seguito di un forte squilibrio nella bilancia dei pagamenti.

Il dollaro, infatti, è stato sempre accettato sia come moneta di scambio che come asset di riserva, indipendentemente dal suo concambio con le altre valute. Sia quando esso era svalutato, come negli anni 2002/13, sia quando aveva recuperato valore negli anni successivi. Libera da questa incombenza, la politica economica americana poteva concentrarsi sul trade-off sviluppo/inflazione. Intervenendo con la politica monetaria e fiscale, solo quando i relativi parametri avevano superato gli argini di sicurezza.

Rispetto all’Europa, questa posizione di relativo privilegio aveva creato, fin dagli anni ’80, le premesse per una politica produttivistica che aveva consentito agli Stati Uniti il passaggio accelerato dalla old alla new economy. Mentre nel Vecchio Continente una politica rattrappita nell’ideologia della sola stabilità finanziaria rendeva possibile solo il restyling di prodotti industriali, ormai maturi; lasciando alla sola Cina il compito di specializzarsi nelle produzioni tipiche del risparmio energetico. Da qui quel mosaico produttivo che vede gli Stati Uniti trionfare nelle filiere dell’ICT (information and communications technology) prima, e dell’AI (Artificial Intelligence), dopo; la Cina nel campo delle energie rinnovabili, l’Ue nelle produzioni mature della vecchia epoca fondista.

Uno dei paradossi, che ha accompagnato il grande salto americano, ha coinciso con il suo finanziamento. Quel passaggio, oltre alle indubbie capacità intellettuali dei suoi innovatori, aveva richiesto enormi investimenti. Che erano derivati sia dalla riconversione produttiva dovuta alla sostituzione dei prodotti della ex old economy ottenuti in loco, con le importazioni dal Resto del mondo. Operazione che aveva comportato enormi risparmi. Sia in conseguenza del finanziamento implicito del disavanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Prestiti senza contropartita, data la fame di dollari, concessi dai Paesi creditori ed utilizzati in patria per promuovere la new economy.

Oggi, stando almeno alle valutazioni di Donald Trump, quel modello è giunto al capo linea. Anche perché AI e robotica, integrati tra loro, sono in grado di ricollocare in patria (reshoring) attività produttive che sembravano poter appartenere solo all’old economy, ma che politiche di meticciato, cui si accennava in precedenza, possono rendere nuovamente attraenti. Per questo chiede all’Europa di comprare più prodotti americani: soprattutto gas liquefatto e armi per accrescere il potenziale militare del Vecchio Continente. Ridurrebbero soprattutto il deficit commerciale, senza per questo dar luogo agli svantaggi legati proprio all’introduzione dei dazi. Una proposta comprensibile anche se riduttiva.

Da un punto di vista più generale, infatti, l’Occidente rischia l’accerchiamento da parte di potenze ostili, che mal ne sopportano la lunga egemonia storica. Il suo pivot, ancora oggi è rappresentato dal rapporto Stati Uniti-Europa Occidentale. Segare quel ramo su cui entrambi sono seduti sarebbe pertanto una follia. Ma se questa è la posta in gioco, i compiti della Ue non possono limitarsi all’acquisto di qualche prodotto in più. Deve, invece, essere più compartecipe di un comune sforzo collettivo. Che può essere sostenuto solo avendo a disposizione le necessarie risorse finanziarie. E allora si tratta di abbandonare quella vecchia visione salvifica della sola stabilità finanziaria per gettarsi nel mare aperto della maggior crescita economica.

Ci sono le condizioni? Negli anni passati il sacrificio, se così si può dire, non fu solo posto a carico degli Stati Uniti. Il prezzo pagato dall’Europa fu altrettanto pesante, in termini di mancato sviluppo e dissipazione di risorse finanziate, imbrigliate in un modello finanziario che aveva dalla sua solo il ricordo dei grandi drammi del ‘900. Ma per il quale fu pagato un prezzo enorme: quei 350 miliardi di euro all’anno di risparmio (valutazioni di Enrico Letta e della stessa Commissione europea) derivante dagli attivi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che, non trovando impiego nel Continente, hanno, in larga misura, contribuito a far grande proprio la patria di Donald Trump.


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