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Putin e quel difficile equilibrio tra pace e consenso interno

Il Cremlino sembra pronto a cercare uno stop (anche solo temporaneo) al conflitto in Ucraina. Oltre le apparenze, pesano le difficoltà economiche e la crescente insoddisfazione interna. Ma Mosca non può perdere la faccia

Il Cremlino sembra essere intenzionato a porre presto fine alla sua “Operazione Militare Speciale” in Ucraina, o quantomeno a porre una pausa alla sua fase “attiva” per trasformarlo in un frozen conflict. Diversi sono i fattori che sembrano indicare una simile volontà da parte dell’elitè governativa moscovita. A partire dalla nuova retorica assunta dai media russi (e in particolare da quelli più vicini agli apparati governativi) già a partire dal dicembre dello scorso anno, retorica in cui un’interruzione degli scontri viene presentata come “imminente ed inevitabile”, stressando al contempo come per la maggior parte della società russa la fine (anche temporanea) degli scontri verrà percepita come una vittoria per la Federazione Russa.

Ma dietro questa narrativa non è difficile scorgere alcune difficoltà per il regime guidato da Vladimir Putin, a partire dalla stanchezza del fronte interno. In un articolo pubblicato sull’Eurasia Daily Monitor della Jamestown Foundation, Ksenia Kirillova offre una panoramica di quali siano le criticità che preoccupano gli alti ranghi del governo di Mosca. Da una parte ci sono le sempre più evidenti difficoltà di carattere economico, racchiuse nel commento riportato da un canale Telegram molto vicino agli ambienti di potere secondo cui “entro il 2026 la situazione economica [della Russia] andrà fuori controllo”, a causa del “declino catastrofico del valore degli asset bancari, che servono come garanzia per i depositanti” e con “le perdite continuano a crescere”, a cui si aggiunge il rischio di un’ulteriore stangata che potrebbe arrivare dal crescente numero di insolvenze su prestiti e mutui. A questo si aggiungono anche l’aumento dell’inflazione e il “peggioramento del clima imprenditoriale”

Dall’altra, la stanchezza della popolazione (soprattutto di quella residente nelle aree rurali) verso il crescere delle perdite, aumentante a dismisura negli ultimi mesi. Stanchezza che si riflette in un calo continuo negli arruolamenti. Un fattore che pesa, poiché il Cremlino non sembra disporre di sufficienti risorse per continuare a sostenere operazioni offensive della stessa intensità di quelle condotte fino ad ora, per carenza di uomini e di mezzi.

Il regime di Putin deve però concentrarsi anche su un’altra fascia della popolazione, ovvero quella che si oppone alla fine della guerra. Di questo insieme fanno parte gli ultranazionalisti, sfruttati fino ad ora dal governo per favorire la sua propaganda a sostegno dell’impegno militare, che non accettano esiti diversi dalla vittoria totale e dall’infliggere “la giusta punizione al regime di Kyiv”; allo stesso tempo, considerano deleterio ogni tipo di negoziato, poiché “annullerebbe gli obiettivi globali dell’operazione militare speciale e creerebbe un nuovo conflitto in futuro”.

Accanto agli ultranazionalisti si collocano le forze che sono diventate “beneficiarie dirette” della guerra, come alcuni degli oligarchi russi colpiti dalle sanzioni occidentali, i quali adesso avrebbero come fonti primarie di reddito l’assorbimento di beni stranieri e la produzione di beni e servizi sostitutivi delle importazioni. “L’incapacità di mantenere i livelli di reddito precedenti in caso di fine della guerra e le difficoltà di transizione dell’economia verso un regime di pace potrebbero causare insoddisfazione in questa parte dell’élite” nota Kirillova. Inoltre, il regime russo sarà costretto a cercare nuovi “nemici interni” e a intensificare la repressione se i negoziati di pace sfoceranno in una crisi economica. E Putin potrebbe scagliarsi contro le oligarchie nel tentativo di rafforzare il consenso del popolo russo attraverso una battaglia per la redistribuzione della ricchezza e il ripristino della giustizia sociale.

Problemi a parte, il Cremlino sembra contare molto sul dialogo con il nuovo presidente americano Donald Trump per raggiungere un compromesso che gli permetta di uscire a testa alta (o almeno non a testa bassa) dal conflitto. La recente liberazione del giornalista statunitense Marc Fogel, detenuto in Russia dal 2021, non può non essere interpretata come strumentale in questo senso. Non a caso, gli stessi esponenti dell’amministrazione americana hanno definito questo gesto come una “dimostrazione di buona fede” da parte di Mosca. Segnalando nuovamente la disponibilità della Casa Bianca a dialogare con Putin.


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