Età media 40 anni e una approfondita dimestichezza digitale con il deep web. Questo il nuovo volto della mafia 4 punto zero, smascherato dal blitz della Procura di Palermo e dei Carabinieri conclusosi con 181 arresti. Ma il dato più preoccupante che emerge dall’inchiesta è la capacità dei boss di aggirare il 41 bis, le norme sul carcere duro previsto per i reati di mafia. L’analisi di Gianfranco D’Anna
L’immanente Dna di cosa nostra innestato nell’inedito sprint della mutazione digitale. Dopo 33 anni di continui tentativi, palesi e occulti, vedi il caso Cospito, di anestetizzare e soprattutto abolire il 41-bis, le cosche mafiose virano sulla digitalizzazione e sfruttano la tecnologia più sofisticata per bypassare controlli e restrizioni dei boss detenuti. Tecnologia avanzata, in aggiunta a corruzioni, intimidazioni e talpe, come ha evidenziato il quadro del maxi blitz che ha determinato l’arresto di 181 esponenti dell’apparentemente nuova, ma fondamentalmente sempre uguale a sé stessa mafia palermitana.
Una new generation di cosa nostra, col culto atavico dei padrini ma in modalità droga, estorsioni, gioco d’azzardo, appalti. Il tutto in un contesto web che le strutture carcerarie non sono preparate a fronteggiare, evidenziano il procuratore della Repubblica di Palermo Maurizio De Lucia e la procuratrice aggiunta Marzia Sabella, che hanno coordinato l’inchiesta giudiziaria culminata col blitz compiuto dai Carabinieri.
Al di là delle comunicazioni telefoniche criptate, delle complicità esterne e della fatiscienza delle strutture carcerarie, in realtà è l’impianto normativo del regime penitenziario speciale del carcere duro, in sigla 41-bis, varato nel 1992 per arginare l’offensiva stragista di cosa nostra, a necessitare di una messa a punto per innalzare i livelli dei controlli e della prevenzione e assicurare l’assoluto isolamento dei mafiosi detenuti dai rispettivi ambiti criminali.
Diventato uno strumento ineludibile ed indiscutibile della lotta contro le mafie, il 41 bis patisce, paradossalmente, la difficoltà di districarsi tra funzioni manifeste e latenti di questo specifico regime detentivo. Rimasto una misura “emergenziale”, solo con nel 2002 è diventato il cardine del sistema antimafia a tempo indeterminato e nel 2009 è stato, per così dire messo in sicurezza da eventuali rischi di incostituzionalità. Al 4 aprile 2024, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i detenuti sottoposti al regime penitenziario speciale del carcere duro sono complessivamente 721, comprese una decina di donne.
Accanto al 41 bis vi è inoltre il circuito dell’alta sicurezza che riguarda i detenuti condannati o accusati di reati particolarmente gravi come stragi di mafia e terrorismo. Pericolosità e gravità che determina un regime di detenzione suddiviso su tre livelli: alta sicurezza 1, 2 e 3. Secondo i dati del DAP, aggiornati all’aprile del 2024, i detenuti assegnati al macro-circuito dell’alta sicurezza sono 9.439.
Dopo l’apertura da parte della Commissione parlamentare Antimafia di un’inchiesta sull’applicazione del 41-bis, si sta valutando l’ipotesi di ripristinare il divieto – eliminato nel 2022 – di concedere benefici penitenziari ai condannati previsti dalla norma, salvo che nei casi di collaborazione con la giustizia. Un inasprimento di controlli e di sospensione di benefici che fa seguito alle intercettazioni di boss mafiosi che si scagliavano contro la premier Giorgia Meloni. La stretta potrebbe essere varata con una modifica normativa al vaglio della Commissione parlamentare Antimafia.
Ma a preoccupare gli inquirenti sono anche le evidenze investigative del blitz antimafia dei 181 arresti di Palermo. “Le indagini rivelano che per i mafiosi stare in carcere e fuori dal carcere è la stessa cosa, perché la disponibilità di apparecchi cellulari per comunicare fra loro pone un serio problema sulla capacità effettiva di utilizzare il carcere anche come strumento di prevenzione generale” ha affermato il Procuratore di Palermo De Lucia.
“Il regime dell’alta sicurezza è in mano alla criminalità”, ha specificato il Procuratore Nazionale antimafia Giovanni detto Melillo “perché – ha aggiunto – anche da questa inchiesta viene fuori l’estrema debolezza del circuito penitenziario che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis”.
Una duplice denuncia che sottolinea l’urgenza di interventi immediati a sostegno del potenziamento delle strutture e degli organici dell’amministrazione penitenziaria. Perché il rischio, già in progress, é che le carceri si trasformino in un buco nero della lotta contro le mafie.