L’eccesso di austerità, che ha caratterizzato la fase della slow globalization, rispetto al periodo precedente, ha spinto i singoli Paesi europei a comprimere la domanda interna per concentrarsi sulle esportazioni. Le basi produttive dell’Ue sono, tuttavia, rimaste integre. La sua necessaria riconversione verso la produzione dei mezzi di deterrenza può contribuire, da un lato, ad accrescere il tasso di sviluppo complessivo, dall’altro a colmare l’eventuale distanza che separa l’Europa dal suo poco affidabile vicino. È uno sforzo sostenibile, dal punto di vista finanziario? L’analisi di Gianfranco Polillo
Forse l’Europa dovrebbe smetterla di fare il “calimero” della politica. In quel vecchio spot pubblicitario un lamentoso pulcino si rammaricava di essere nero. Quando, invece, era semplicemente sporco, per cui bastava il detersivo di turno per renderlo nuovamente splendente. Certo il vissuto dell’Europa è quello che è. Più che errori, che ci sono stati, il suo è stato un abbandonarsi ad un dolce quieto vivere. Che le condizioni internazionali rendevano possibile. Non proprio il migliore dei mondi possibili, ma certamente quello più gratificante. In cui i fondamentali del suo benessere erano garantiti dall’ombrello militare americano, dalle forniture energetiche russe a basso prezzo e dalla disponibilità cinese ad acquistare prodotti “Made in Ue”. Condizioni che al momento è difficile poter nuovamente ipotizzare.
Che il risveglio da quel lungo sonno fosse traumatico era prevedibile. Come prevedibile il conseguente senso di estraniamento. Vedere che, all’improvviso, tutto stava cambiando alla velocità di un missile ipersonico non poteva che stordire, fino ad alimentare forme di panico. Che pure si sono manifestate nelle reazioni un po’ scomposte di coloro che hanno visto nel cambiamento improvviso dei grandi equilibri internazionali una presunta conferma delle proprie antiche teorie sulla necessità di un originario cedimento. Dovevate dare a Putin quel che era di Putin: questa l’accusa. Ed ora la storia si sta vendicando.
Se quello shock era in qualche modo comprensibile, lo è anche il senso di smarrimento e di paura che ha accompagnato quel risveglio? Evitiamo la psicosi. Nel possibile risiko europeo, sempre che esso si sviluppi, la forza dell’Europa è tale da costituire un deterrente. Da questo punto di vista la semplice analisi dei fondamentali consente di introdurre elementi di razionalità in una discussione che altrimenti rischia di debordare verso l’imponderabile. Ed ecco allora i singoli addendi del book che può mettere in evidenza le principali differenze.
Cominciamo dalle dimensioni reali del contendere. Da un lato il più esteso Paese del mondo, la Federazione Russa, con i suoi 174,8 milioni di chilometri quadrati; dall’altro una sorta di piccolo David, l’Unione europea, con i suoi 4,4 milioni di chilometri. Ma la supremazia, se questa differenza può essere considerata tale, finisce lì. Anzi, a guardar bene, è sintomo di follia. Strappare il Donbass all’Ucraina, se questo semmai dovesse verificarsi, che si estende per poco più di 50 mila chilometri (lo 0,028 per cento della superfice russa), valeva forse quel centinaio di migliaia di morti; la distruzione sistemica delle terre che si dovrebbero, in futuro, amministrare; il disdoro internazionale che sta imbrattando la storia di quel grande Paese?
Secondo elemento: su quella terra abitano 146 milioni di persone. I dirimpettai europei sono invece 447 milioni. In leggera crescita dal 1990 (più 13,9 per cento), mentre i primi decrescono dell’1,3 per cento nello stesso intervallo di tempo. Quello demografico potrebbe essere un elemento secondario. Invece si è visto quanto esso abbia pesato nella guerra di logoramento che ha insanguinato le terre invase dai russi, la cui superiorità bellica è stata soprattutto data da una maggiore disponibilità di truppe (non solo russe per la verità) da usare spesso come carne da cannone. Se Putin volesse puntare sulla maggiore capacità di sacrificio del suo popolo, come pure è stato detto, potrebbe andare incontro a più di una delusione, nel dover contrastare la reazione di chi si sente nel giusto. E la forza che ne deriva da un’intima convinzione.
Comunque sia, al di là della demografia, vi sono poi le colonne dell’economia. Ed esse non depongono certo a favore della Russia: da sempre caratterizzata da un’arretratezza che è stata prima degli Zar, quindi del modello sovietico, fino al collasso finale. A monte del quale non vi fu alcun fatto traumatico, ma solo il lento inaridirsi di un regime caratterizzato dall’assenza di libertà. Nei primi anni del Terzo millennio, Putin ebbe la grande occasione di poter invertire quella tendenza storica. Nel periodo 1999/2008 il Pil russo, spinto dai venti dell’iperglobalizzazione, aumentò con una velocità tripla rispetto all’Europa. Poi però la Global Financial Crisis gelò quegli animals spirits, facendo precipitare il Mondo intero in una brusca involuzione. L’inizio della slow globalization.
In Russia lo shock fu particolarmente violento con una caduta del Pil pari al 7,8 per cento: quasi il doppio rispetto all’Europa. Un trauma che Putin interpretò come un segno del destino. L’aver cercato di scimmiottare gli occidentali era stato una sorta di sacrilegio. E San Nicola, una dei grandi santi protettori della Terra d’Oriente, lo aveva punito. Non è un caso se proprio in quell’anno si sviluppò la prima “Operazione militare speciale” nei confronti della Georgia, poi ripetuta in Crimea (2014) e infine in Ucraina, più o meno con le stesse modalità. Il tuffo nel passato destinato a divenire guida del presente si era ormai consumato.
Da allora i rapporti tra queste due diverse realtà – l’Ue da un lato, la Federazione russa dall’altra – sono rimasti più o meno stabili. Il Pil europeo, in valore nominale, è risultato sistematicamente superiore di 8 o 4 volte a quello della Federazione, a seconda si consideri o meno la diversa parità del relativo potere d’acquisto. Se poi da un discorso puramente quantitativo si vuole passare ad uno qualitativo, lo scarto diventa incommensurabile. Da un lato, in Europa, esiste una struttura industriale che è tra le più forti ed avanzate del mondo, come è dimostrato dal notevole attivo della sua bilancia commerciale. Sul fronte opposto, invece, la prevalenza è nella fornitura di materie prime – soprattutto di natura energetica (gas, petrolio e carbone) – una struttura che somiglia da vicino a quella del vecchio “Terzo Mondo”, da cui Paesi come la Cina, il Vietnam e più ingenerale tutto il Far East si è da tempo emancipato.
Queste differenze, unitamente al diverso contesto demografico, vanno tenute bene a mente nella valutazione dei relativi rapporti di forza. Che finora non sono state adeguatamente apprezzate a causa delle cattive politiche seguite. L’eccesso di austerità, che ha caratterizzato la fase della slow globalization, rispetto al periodo precedente, ha spinto i singoli Paesi europei a comprimere la domanda interna per concentrarsi sulle esportazioni. Nello stesso tempo le incertezze del green deal operavano come ulteriore disincentivo ad una politica di investimenti. Le basi produttive dell’Ue sono, tuttavia, rimaste integre. La sua necessaria riconversione, seppure parziale, verso la produzione dei mezzi di deterrenza può quindi contribuire, da un lato, ad accrescere il tasso di sviluppo complessivo, dall’altro a colmare l’eventuale distanza che separa l’Europa dal suo poco affidabile vicino.
È uno sforzo sostenibile, dal punto di vista finanziario? Secondo i dati dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) le spese militari della Nato, nel periodo 1994/2024, sono state più di tre volte tanto quelle russe. Non hanno prodotto la necessaria deterrenza solo a causa della loro frammentazione dovuta alla mancanza di un disegno unitario. Quel monito recentissimo di Mario Draghi affinché l’Ue agisca come un solo Stato. Problemi che la nuova congiuntura internazionale portano in primo piano, e che – almeno si spera – dovranno essere affrontati e risolti. Nella possibile road map due momenti distinti. All’inizio sarà forse opportuno ricorrere ad un trade-off con gli Stati Uniti di Trump: scongiurare il ricorso ai dazi, grazie ad un aumento delle forniture di armi “made in Usa”. Un vantaggio reciproco. In prospettiva, tuttavia, sarebbe opportuno una riconversione, seppure mirata, dal civile al militare di alcune industrie europee.
Resterebbe, ovviamente, il problema della deterrenza nucleare. Se gli Stati Uniti garantiranno quell’ombrello si potrà soprassedere. Ma anche in questo caso, vista la piega che potrebbero prendere gli avvenimenti sicuri, occorrerà fare un pensierino sull’ipotesi di una forza autonoma europea, non più dipendente dalla benevolenza di chicchessia. Naturalmente vi sarà sempre chi proporrà di produrre burro invece di cannoni. Un comandamento che noi stessi non vorremmo violare. Sennonché in una situazione tesa e complessa come l’attuale, il voler vivere “sanza infamia e sanza lodo”, come scrive Dante Alighieri nella Divina Commedia, è un lusso che non possiamo permetterci. A meno di voler finire nell’Antinferno.