Il modello di sinodalità che Francesco ha proposto alla sua Chiesa è stato il più grande contributo offerto al mondo per adeguare la democrazia, che è liberal democratica, alle sfide del nuovo millennio. Il commento di Riccardo Cristiano
Anni fa, all’inizio del tempo pandemico, Francesco ci avvertiva: non siamo in un epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca.
Molti sembrano essersene accorti solo ieri, quando hanno visto il video dello scontro tra Trump e Vance da una parte e Zelensky dall’altra. Siamo in un’epoca nuova, ancora inconsapevoli.
Eppure Francesco ci aveva avvertito molto tempo prima che Trump tornasse alla Casa Bianca, il cambio d’epoca lo vedeva già allora. Francesco non è un oracolo, è un uomo di 88 anni, ed è ricoverato in ospedale, in condizioni che dicono “critiche”.
Non sono un medico, non so nulla della sua malattia più di quanto ci sia scritto nei bollettini.
Ma sento che la sua richiesta di pregare per lui mi dice qualcosa. Cosa vuol dire pregare per lui? Per me vuol dire fermarmi a pensare cosa mi dica, cosa mi aiuti a capire, quale sia il senso della sua presenza per me.
Questo pensiero spero gli possa essere di una minima utilità, un piccolissimo conforto, e mi aiuta a vedere.
Oggi capisco che questo cambiamento d’epoca è vero, c’è.
Ma lui me lo ha detto solo allora, senza dirmi come entrare, cosa fare in questa epoca nuova? No.
Pensare a lui, a quest’uomo anziano che come tutti gli anziani si ammala e che io spero guarisca, pur sapendo che non potrà farlo per sempre, mi aiuta a ricordare che lui mi aveva invitato ad attrezzarmi già prima, addirittura nel 2015, cioè dieci anni fa.
Sembra un arco temporale impensabile, soprattutto in questi tempi così veloci, che con le sue rapide ci sta portando verso qualcosa che abbiamo difficoltà anche a immaginare.
Il 17 ottobre del 2015, commemorando l’istituzione del sinodo dei vescovi da parte di Paolo VI esattamente 50 anni prima, Bergoglio parlò dell’esigenza di passare da una Chiesa verticista, piramidale, a una Chiesa sinodale, idea di cui tanto si parla da allora senza che si sia capito bene cosa sia.
Lui ne parlò nella nostra scarsa attenzione, ci disse che sinodalità vuol dire “camminare insieme” e che il primo passo per farlo come cristiani implica una riforma del papato, una riforma che tenesse conto di quanto aveva detto Giovanni Paolo II, che muoveva dal “constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”.
Sotto questo papa che da monarca assoluto si fa primo tra pari, accoglie le diversità, c’era solo il punto di arrivo di una Chiesa chi si fa sinodale al suo interno, nel senso che si forma tra tutti i fedeli, ricrea comunità, ascolto e che quindi cammina con tutta la società, con la quale i suoi figli vivono, convivono, vivono insieme.
Dunque la Chiesa sinodale è parte del mondo, non si crede un giudice al di sopra e al dil là della storia, sta nella Storia, spera di essere lievito lì dove è piccola, ma vuole stare con noi.
Dunque non esclude, e non si impone. Dice qualcosa alla società in cui si trova?
Guardo il mondo di oggi, l’incontro alla Casa Bianca, e mi chiedo se il primato oggi si eserciti così come ipotizzato da Francesco, o nel modo opposto.
Abbiamo capito di cosa ci parlava Francesco, quali esigenze anche extra ecclesiali coglieva con la sua Chiesa sinodale?
Alla fine di quel discorso pronunciato, ripeto, dieci anni fa, chiarì che parlava anche al mondo, nel quale la sua Chiesa vive; “ Il nostro sguardo si allarga anche all’umanità. Una Chiesa sinodale è come vessillo innalzato tra le nazioni in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere”.
Come Chiesa che “cammina insieme agli uomini, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo il sogno che la riscoperta della dignità inviolabile dei popoli e della funzione di servizio dell’autorità potranno aiutare anche la società civile a edificarsi nella giustizia e nella fraternità, generando un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno dopo di noi”.
Noi non veniamo dopo Francesco, siamo suoi contemporanei, e mentre anziano e malato è ancora in ospedale, scopriamo di averne bisogno per la sua intuizione profetica che non abbiamo capito e che ci deve ancora spiegare.
A mio avviso lui così dicendo ci avvertiva: state attenti, state facendo saltare il vostro ordine liberal democratico. Ne vedeva la crisi già dieci anni fa. L’ordine liberal democratico per me come per molti, ritengo, “è” la democrazia, che si ammala, se non viene curata.
E credo che questo sia ciò che unisce Francesco e la nostra democrazia. Non è stato curato, o si è fatto curare male, forse si è trascurato, come noi abbiamo trascurato di prenderci cura della democrazia.
Non possiamo ridurla a un esercizio elettorale, in molti sistemi non democratici si vota, il presidente in carica prende il 90% dei voti e tutto finisce lì. Non ha neanche molto senso, alle volte, parlare di brogli.
Nell’assenza di una possibilità di confronto, di accesso alla comunicazione, al dialogo con i cittadini, come presentare un’idea diversa di mondo, di società? Chi può farlo, con quali strumenti?
L’ordine liberal democratico fa tante cose, soprattutto direi oggi che fa dello Stato l’arbitro della partita: le regole valgono per tutti, nessuno può avere giudici, pubblica amministrazione, intelligence, gestori delle tasse asserviti a interessi di parte, o finalizzati a punirne altri.
Non siamo ancora in sistemi del genere? In America mi sembra che i campanelli d’allarme ci siano, ma l’ordine liberal democratico non ha più saputo coinvolgere: chi? Chi dice all’arbitro “io non gioco, mi lasciate fuori dal recinto di gioco”.
E chi sono? Sono le periferie, rispondo mutuando Francesco, il suo linguaggio immaginifico. Ma cosa vuol dire? Penso ai voti recenti, che mi hanno spiazzato, impressionato: non sono state le periferie a voltare le spalle all’ordine liberal-democratico?
I land della Germania dell’Est, la Francia rurale, profonda, il nostro Meridione, come le campagne dalle quale è scomparsa la “cultura contadina” di cui ci parlava Pasolini, come di quella operaia: erano culture che davano a molti un loro contesto; sono state lasciate sparire, sostituite dalla sola rimasta, la cultura borghese, dalla quale però molti restano fuori, non ammessi. E protestano.
Il sistema liberal democratico non li sa più interpellare, non c’è dialogo, nessuno sa dire agli esclusi “camminiamo insieme”.
Il nuovo che emerge è il prodotto di questa incapacità di coinvolgere gli esclusi dalla sola cultura rimasta senza essere a loro accessibile.
Questi ricordi mi fanno rendere conto che Francesco ci aveva avvertito ancor prima che il discorso non è solo locale, nazionale, ma globale, perché riguarda la globalizzazione.
Prima di tutte queste considerazioni, nel 2014 ci aveva infatti avvertito che le periferie interne sono parti di una nuova periferizzazione, quella di chi non si riconosce più parte del mondo nel quale vive, come espulso dall’ordine che conosce come liberal democratico sebbene solo apparentemente: è stato infatti nel 2014, a Caserta, che ha detto: “Noi siamo nell’epoca della globalizzazione, e pensiamo a cos’è la globalizzazione e a cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: forse una sfera, dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No! Questa è uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità!”
“Che figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità”.
Questa unità nella diversità che propone ai cristiani per valorizzare ogni carisma nella loro rinnovata unità che non appiattisce tutti sotto un unico “vertice”, che tutto uniforma, lui la vede e propone chiaramente anche per i popoli, che oltre alle vaste e trasversali culture contadina e operaia hanno anche loro specificità, che la globalizzazione deve rispettare, non appiattire, ma federare, nel poliedro del mondo.
Questo rispetto non c’è stato, la globalizzazione è parsa uniformare, cancellare specificità, e sistemi economici, a beneficio della sola finanza.
Questo ha saldato nell’identitarismo, o per meglio dire negli identitarismi, il senso di esclusione delle periferie sociali, i contadini senza più cultura contadina, gli operai senza più cultura operaia, gli operai sociali senza chi sia capace di rappresentarli e poi i popoli, punti uguali l’uno agli altri in una sfera.
Il modello di sinodalità che Francesco ha proposto alla sua Chiesa andrebbe certamente spiegato meglio, ma è stato il più grande contributo offerto al mondo per adeguare la democrazia, che è liberal democratica, alle sfide del nuovo millennio.
E per questo, come posso, devo pregare per lui, per immaginare, preservando la certezza che il mio è un pensiero incompleto, alimentando la mia inquietudine, la sola che se vissuta fino in fondo può condurmi alla pace (che non è quella di cui si parla in queste ore).