Dalle prime reazioni di alcune forze politiche italiane alle proposte di riarmo di Ursula von der Leyen, sembra che la difesa del Paese da potenziali minacce esterne abbia scarsa rilevanza e non sia una priorità assoluta. Invero, è precisamente in questo atteggiamento che si annida il pericolo più grave per la democrazia, l’indipendenza e la libertà dell’Italia. L’analisi di Salvatore Zecchini
È stato sufficiente un mese al presidente Trump per sconvolgere l’ordine politico-istituzionale su entrambi gli scacchieri, interno ed internazionale, e per avviare il passaggio a uno nuovo dai contorni e rischi ancora non definiti. L’unica certezza ad oggi è che il nuovo sarà imperniato essenzialmente sui rapporti di forza con gli alleati, i concorrenti e gli oppositori, da misurarsi in termini di forza politica, economica e militare. Ne sono prova sul piano interno la noncuranza verso le regole della democrazia parlamentare, le decisioni di bilancio del Congresso, gli atti della magistratura, l’importanza di mantenere i servizi pubblici essenziali per il benessere sociale, quali quelli per la sanità, e i diritti dei funzionari pubblici, messi alla porta da un giorno all’altro. Al loro posto un accentramento di poteri, con l’erosione del sistema di pesi e contrappesi, che è stato alle fondamenta della democrazia americana sin dal suo sorgere.
In parallelo, lo sconvolgimento dell’ordine internazionale, attraverso la rottura di trattati commerciali, come quello con Canada e Messico, l’uscita da organismi per la cooperazione multilaterale, come il Who e da programmi d’aiuto dell’Onu, ridimensionamento dell’impegno nell’Alleanza Atlantica, disimpegno dalle regole del Wto ed impiego di misure protezionistiche, riduzione seguita da interruzione del supporto alla Ucraina nella difesa contro l’aggressione russa, a cui fa da contrappunto l’incondizionato e crescente sostegno alla brutale campagna militare in Palestina. Nessun favore neanche verso gli europei, nei cui confronti tende a far prevalere l’aspetto commerciale delle contropartite da ottenere in cambio della protezione da attacchi esterni. Europei, quindi, considerati tendenzialmente come vassalli o controparti, più che come alleati.
I tratti della brusca evoluzione del rapporto americano con l’UE erano evidenti sin dai primi giorni della nuova amministrazione in diversi atti: la denuncia di sperequazioni nei rapporti commerciali, il sottoporre a nuove condizioni la garanzia americana per la sicurezza nel quadro della Nato, il riavvicinamento alla Russia di Putin, fino ad allora considerato dall’Occidente come una seria minaccia per il mondo occidentale, e il voto all’Onu contro la proposta europea di una risoluzione per la Palestina. La manifestazione ancor più plateale si è vista nei giorni scorsi nell’infuocato incontro di Trump col presidente dell’Ucraina alla Casa Bianca.
In quell’incontro si possono individuare alcuni dei tratti principali che guideranno i nuovi rapporti Usa-Ue. Primo, la protezione americana ha un prezzo nella duplice forma tangibile ed intangibile. Tangibile, in quanto si chiedono, da un lato, contropartite sotto forma di abbattimento di barriere commerciali e nel prendere a carico una parte più consistente dell’appoggio militare all’Ucraina. Dall’altro lato, si esige il ribilanciamento degli oneri della difesa europea nell’ambito dell’alleanza della Nato, condizionando l’impegno americano alla sicurezza dell’Europa a un considerevole potenziamento della spesa europea.
Questo tratto si traduce nel messaggio che gli europei debbono contare in prima istanza sui loro mezzi per provvedere alla propria sicurezza. L’ombrello protettivo americano non va dato più per scontato come è avvenuto negli scorsi decenni, in cui alla difesa gli europei hanno assegnato risorse totalmente inadeguate in rapporto alla gravità delle minacce esterne. In passato, la lotta al comunismo poteva giustificare il ruolo di supplenza degli Usa nei confronti delle carenze europee, ma nel mondo attuale quella motivazione ideologica è venuta meno e si è ritornati a un contesto ordinario di normali rapporti tra nazioni.
Questo clima, che aveva indotto gli europei ha ridurre i loro investimenti nella difesa, è stato improvvisamente spezzato dal revanscismo russo con l’invasione della Crimea e l’occupazione di altri territori ucraini. In quel tempo la risposta europea è stata sotto tono ed ispirata a mantenere relazioni amichevoli con la Russia, sottostimando i segnali di aggressività che si andavano manifestando. In contrasto, nella prima presidenza Trump, gli americani avevano accentuato la pressione perché i paesi dell’Ue rafforzassero le loro capacità di difesa.
La nuova invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha messo ancor più in risalto la grande vulnerabilità dell’Europa e al tempo stesso la notevole dipendenza dallo scudo americano. Ma Trump non ha lasciato ormai più dubbi sul fatto che gli interessi americani non sono più concentrati sull’Europa, che la Cina è la maggiore fonte di preoccupazione e che il riavvicinamento alla Russia di Putin può servire per fronteggiare meglio la sfida cinese. Tra i governi dei paesi dell’Ue, peraltro, l’aggressione dell’Ucraina del 2014 ha risvegliato la consapevolezza della propria vulnerabilità sul versante orientale, come si desume dai numerosi piani e decisioni che sono state adottati a Bruxelles e nei bilanci nazionali.
Le spesa europea per la difesa è stata incrementata del 40% dal 2015 al 2023 ed è stata portata a ridosso del 2% del Pil. Ma rimane inadeguata rispetto al fabbisogno di sicurezza, come riconoscono i Rapporti Draghi e Niinisto. Inoltre, presenta diversi lati deboli. In primo luogo la sua governance è frammentata in tanti piani nazionali, poco coordinati tra loro e anche tra diversi strumenti di finanziamento comunitari.
Attualmente nell’Ue sono in azione 16 strumenti per la difesa, che spaziano dalla programmazione della strategia, alla R&I, lo sviluppo della base industriale, la catena di forniture, la costruzione del futuro aereo da combattimento, lo spazio, la standardizzazione, le risorse finanziarie e l’aiuto militare all’Ucraina. La cooperazione tra i paesi membri è iniziata da anni nell’ambito della Politica di difesa e sicurezza comune nella modalità delle diverse missioni militari ad hoc, come avvenuto con Althea in Bosnia e con quelle navali nel Mediterraneo (Irini), mar Rosso (Aspides), Corno d’Africa (Atalanta) e l’Euromarfor sotto un comando integrato.
Tale varietà di strumenti manca, tuttavia, di una struttura unica di governance, che coordini le politiche nazionali e ne segua l’attuazione in forme coerenti con gli obiettivi ed i piani comuni. Entrambi i Rapporti Niinisto e Draghi non avanzano verso questo traguardo ma formulano proposte di grande portata. Parlano della creazione di un Mercato unico della Difesa, di sviluppare importanti Progetti di interesse comune, di instaurare una collaborazione tra i settori civili e quelli militari, di investire in tecnologie dal duplice impiego, e di coinvolgere l’insieme del governo nel realizzare questi programmi. Raccomandano, in particolare, di ampliare la quota destinata alla difesa nel quadro della programmazione pluriennale della spesa comunitaria (MFF) rispetto all’esiguo 1% attuale, che equivale a 1-1,5 miliardi.
In sintesi, si invoca una Politica industriale per la difesa comune con un orizzonte di medio periodo, che comprenda il principio della preferenza comunitaria negli acquisti, induca gli Stati a mettere insieme le commesse per sfruttare le economie di costo e che incentivi la standardizzazione ed armonizzazione degli equipaggiamenti. L’integrazione tra Stati delle capacità industriali servirebbe a rafforzarne il potenziale progettuale e produttivo. Quindi viene prospettato un programma per la difesa che copre i principali campi e si estende dalla programmazione delle misure all’attuazione, nonché dalla ricerca e progettazione dei sistemi alla loro messa in campo.
Di questi temi si è discusso da anni e a lungo negli ambienti comunitari e nelle capitali, ma alle dichiarazioni di intenti, agli accordi e alle singole collaborazioni industriali tra aziende non sono seguiti passi cruciali per giungere alla difesa comune. Il pericolo rappresentato dalla minaccia russa, d’altronde, offre l’occasione per dare impulso a una strategia comune e per compattare i membri nel realizzarla. In questa prospettiva la Presidente della Commissione è uscita ultimamente in pubblico con un piano d’intervento in cinque punti. Primo, il ricorso alla clausola di salvaguardia per consentire nuovo indebitamento pubblico entro l’1,5% del Pil soltanto per investimenti nella difesa, con un impegno finanziario di 650 miliardi su 4 anni. Secondo, prestiti per 150 miliardi per potenziare gli armamenti. Terzo, facoltà per gli Stati di dirottare sulla difesa parte dei fondi per la coesione. Si aggiungono la mobilitazione dei capitali privati e i finanziamenti della Bei
In generale è un buon programma, che farà da base per la discussione al prossimo Consiglio Europeo previsto in settimana e che sarà un test della compattezza di intenti nell’Unione e della disponibilità degli Stati a collaborare effettivamente in modi efficaci e tempi accelerati. Certamente, nel piano è assente lo strumento dei prestiti comuni, su cui il governo italiano ha insistito. Né si conoscono i dettagli sulla tipologia di investimenti ammessi e sull’ammontare delle risorse mobilizzabili sui mercati finanziari e di quelle accordate dalla Bei.
La stima della Commissione di 800 miliardi di spesa aggiuntiva per il quadriennio è considerevole se rapportata a una spesa annua complessiva dei paesi dell’Unione, valutata in 350 miliardi nel 2024. La dimensione della spesa sarebbe in linea col raggiungimento dell’obiettivo Nato del 3% del Pil e in generale potrebbe apparire proporzionata in rapporto al bilancio americano per la difesa, che peraltro sostiene l’impegno militare degli USA su uno scacchiere molto più grande, ovvero quello globale.
Come nel passato, la difficoltà maggiore nel raggiungere il consenso su un piano di riarmo sta nel convincere i cittadini europei della necessità di prepararsi per tempo ad affrontare le minacce che si profilano all’orizzonte per la propria sicurezza e sovranità. Come giustamente sottolinea il Rapporto Niinisto, “I leader hanno la responsabilità di prospettare chiaramente ai cittadini le minacce da cui bisogna prepararsi a difendersi.” Prosegue affermando che è fondamentale accrescere la loro consapevolezza dei rischi all’orizzonte e coinvolgerli più intensamente nella costruzione della sicurezza.
Purtroppo dalle prime reazioni di alcune forze politiche italiane alle proposte di riarmo della von der Leyen sembra che la difesa del Paese da potenziali minacce esterne abbia scarsa rilevanza e non sia una priorità assoluta. Invero, è precisamente in questo atteggiamento che si annida il pericolo più grave per la democrazia, l’indipendenza e la libertà dell’Italia.