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Machiavelli e la Difesa. Il dilemma della guerra senza soldati secondo il prof. Bozzo

La lezione di Machiavelli sulla difesa dello Stato resta attuale: senza buoni soldati non può esserci sicurezza. L’Europa di oggi si trova di fronte a una crisi simile a quella dell’Italia rinascimentale, incapace di difendersi da sola. L’analisi di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze

Scrive il Machiavelli al capitolo 10 del Libro II dei Discorsi: “Non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l’oro”. Queste parole del Segretario fiorentino sono molto più attuali di quanto potrebbe rivelare il periodo – la seconda decade del XVI secolo – in cui furono scritte. La frase, ovviamente, s’inquadra nella dura polemica del Machiavelli contro le milizie mercenarie e quelle ausiliarie, che occupa i tre capitoli, non a caso centrali, del Principe (dal XII al XIV).

Le armi proprie, oggi diremmo le Forze Armate, sono la miglior tutela della libertà di repubbliche e principati, ma non da sole. Per Machiavelli due sono infatti i fondamenti dello Stato: buone “arme” e buone leggi, la forza e il diritto; “non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge”. Queste “buone arme” sono innanzitutto i buoni soldati e nella concezione tipicamente repubblicana del Machiavelli solo il buon cittadino è buon soldato e viceversa. Da qui l’ammirazione per le comunità della Magna (i territori tedeschi dell’Impero): sobrie, ordinate, dedite alla preparazione della guerra, pur senza amarla, e alle periodiche esercitazioni militari.

Tra XV e XVI secolo il sistema degli Stati italiani, straordinariamente ricchi e culturalmente avanzati, si trovò improvvisamente stretto e travolto dalle due grandi potenze dell’epoca: Francia e Spagna. L’unica speranza di salvezza, per Machiavelli, era l’unione politica unita ad “arme” capaci di far fronte alla minaccia e, come noto, egli s’impegnò nel reclutamento e addestramento di una milizia fiorentina, che tuttavia nel 1512 fallì la prova del fuoco. Prima che militare la crisi fiorentina e italiana era tuttavia politica ed etica. Non a caso, la principale difficoltà incontrata dal Machiavelli fu proprio il reclutamento della sua milizia “cittadina”. Terminata l’età delle guerre comunali, l’aristocrazia e la classe mercantile fiorentine, ricche e sofisticate, trovarono conveniente esentare i figli dalla pratica bellica, promuovendo lo sviluppo di una sorta di capitalismo militare ante litteram. La funzione bellica fu delegata, a caro prezzo, a imprenditori e professionisti delle armi, favorendo la creazione di quelle “città mobili” che furono le compagnie di ventura. La nobiltà temeva che fosse armato e addestrato il popolo minuto cittadino, né Firenze poteva contare sulla fedeltà di quelli, soggiogati con la forza, di Arezzo, Pistoia, Volterra ecc. Il Machiavelli si trovò perciò costretto a “cappar fanti” nelle valli appenniniche del Casentino e del Mugello, legate a Firenze.

La crisi degli Stati italiani di ieri presenta analogie con quella degli Stati europei di oggi, nel momento in cui si trovano ad affrontare, soli, la prospettiva di provvedere alla propria difesa. Il dibattito italiano sul tema pare pressoché esclusivamente centrato su questioni di natura finanziaria, industriale, tecnologica o organizzativa. Quasi totalmente ignorata è, invece, un’altra e non meno importante dimensione. Secondo un sondaggio Gallup International del 2024, alla domanda “se scoppiasse una guerra che lo coinvolgesse saresti disposto a combattere per il tuo Paese?” il 78% degli Italiani intervistati (un campione significativo) rispondeva “no” e l’8% o non rispondeva o si dichiarava incerto. Inutile dire che la percentuale dei no è straordinariamente alta, la più alta tra tutti i Paesi considerati (45 in diversi continenti). In Germania il no è al 57%, in Spagna al 53%, nel Regno Unito e in Giappone al 50%. Il risultato, tuttavia, non può sorprendere.

Nei decenni scorsi sono proliferate marce e manifestazioni per la pace, campeggi, scuole e corsi – anche universitari e post-universitari – sulla e per la costruzione della pace. Al contempo, edifici privati e pubblici s’imbandieravano d’arcobaleno, sebbene con qualche significativa intermittenza a seconda degli attori coinvolti in questo o quel conflitto. La più facile retorica pacifista, spesso non elettoralmente disinteressata, è esplosa e il riferimento all’art. 11 della Costituzione (di solito le sole prime tre righe) è divenuto un luogo comune. Si è dimenticato, tuttavia, che al diritto di ognuno di vivere nella pace non può non corrispondere, come ad ogni diritto, un dovere, nel caso specifico quello definito “sacro” della difesa della patria di cui all’art. 52 della Carta. È stato così educato alla pace chi, paradossalmente, meno ne aveva bisogno: intere generazioni nate e cresciute in un Paese ricco, privo di velleità offensive, senza nemici alle frontiere e che comunque godeva dell’altrui tutela. Il conflitto ha però natura interattiva. Non volere la guerra non significa evitarla, di fronte a chi eventualmente la voglia. Altrove il nazionalismo, i radicalismi di diverso genere, l’educazione alla guerra e la sua pratica sono continuati e continuano; là la nostra diffusa cultura della pace non pare aver prodotto effetti. Il problema del reclutamento, almeno quello, può comunque trovare una soluzione tanto naturale quanto inattesa, perlomeno nella percezione corrente. Il crollo demografico, accompagnato dal rapido invecchiamento della popolazione, rischia di sostituire presto all’illusione della “pace democratica” – che avrebbe dovuto far seguito alla diffusione nel mondo del liberalismo e della democrazia – la certezza di una “pace geriatrica”.


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