Notte di Natale, in casa Follini squilla il telefono: è l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quella conversazione viene svelato al futuro vicepresidente del Consiglio, che suo padre sarebbe stato uno dei capi dell’operazione Gladio. Da questa conversazione prende le mosse Beneficio d’Inventario (Neri Pozza) un’originale ricognizione su quegli anni industriosi e irripetibili, tra potere e politica. Colloquio con l’autore
Sera di Natale. È il 2003. Nella casa di Marco Follini, all’epoca segretario dell’Udc, squilla il telefono. Dall’altra parte della cornetta, la voce è quella dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Quella conversazione, come lo stesso Follini racconta in Beneficio d’Inventario (Neri Pozza), durò poco. “Mi disse – dice l’autore a Formiche.net – che mio padre era stato uno dei capi dell’operazione Gladio. Mi riferì anche che di tutto questo non avrei trovato traccia, ma tanto mi doveva”.
Quale fu la reazione?
Di incredulità. Sapevo che mio padre aveva fatto tante cose alla luce del sole, ben visibili. Ma non aveva la vocazione, né il carattere per svolgere quel ruolo che gli era stato attribuito nella conversazione da Cossiga.
Non credette alle parole dell’ex presidente?
Confesso che lì per lì non diedi molto peso alle parole che mi disse. L’ho usata, a posteriori, per compiere in qualche modo una ricognizione su quegli anni.
Perché si sente di escludere un’appartenenza di suo padre a Gladio?
Sono pressoché certo che mio padre apprese di Gladio dai giornali, ma nulla di più. Oltre, come detto, a ragioni caratteriali: non poteva essere uno dei capi di Gladio.
Sulla sfondo, il controverso rapporto tra il nostro Paese e gli Stati Uniti, all’epoca.
Mio padre era senz’altro un filo americano, un uomo d’ordine animato dalla passione politica, ma senza troppo farsi coinvolgere. I rapporti con gli Usa sono un punto cruciale, peraltro restituendo una dimensione di grande attualità.
Dal suo libro si ha come l’impressione che sia stata proprio casa sua la prima “palestra politica”. Quanto c’è di vero?
È così. Gli incontri che venivano realizzati nel salotto di casa furono in qualche modo il primo e forse più importante corso di formazione politica. Conobbi personaggi straordinari, da Guerzoni a Roccella, passando per Moro e Panella. Ma, al di là di questi grandi personaggi, è stato il “contesto” a lasciare un segno più profondo.
La famose “seconde e terze linee”?
Sì, in un salotto per lo più fatto da persone sconosciute al grande pubblico veniva costruito un tessuto connettivo formidabile. Relazioni, tessitura, consuetudini. L’Italia di quegli anni non la si capisce bene raccontando solo dei grandi politici: da Berlinguer a Forlani, passando per Almirante e Moro. La si capisce meglio, invece, scandagliando appunto le “terze linee”.
Da chi erano composte?
Da persone compiaciute di collaborare al consolidamento della democrazia italiana senza la luce dei riflettori. Persone, insomma, che accettavano di non essere in prima fila ma che contribuivano alla vita del Paese per lo meno tanto quanto le figure più blasonate.
Cosa rappresenta per lei il beneficio d’inventario?
La rielaborazione. La conferma del fatto che la verità sia sempre relativa: quanta parte del passato abbiamo deciso di fare nostra, quanta abbiamo deciso di allontanare da noi. Il beneficio d’inventario, in questo contesto, non è una presa di distanza ma il tentativo di prendere coscienza.
Torniamo al rapporto con gli Usa. Lei ha iniziato la sua attività politica in un momento storico di forte contrapposizioni su questo tema. Un po’ quelle che si vivono al giorno d’oggi. Cos’è cambiato?
Faccio parte di una generazione politica che, per lo meno nella metà campo in cui militavo, era molto filo-americana. La guerra in Vietnam aprì la prima fenditura profonda. Ma personalmente ho sempre pensato all’America come un Paese amico. Tant’è che fatico a ragionare sulle nuove coordinate tracciate dalla presidenza Trump. Eppure, anche da segretario dei giovani Dc, difesi a spada tratta la decisione degli americani di installare gli euromissili nelle basi italiane. Nonostante le forti pressioni contrarie che arrivavano dai giovani comunisti di Massimo D’Alema e anche da una parte dei “miei”.
In controluce si percepisce un tema attorno al quale si snodano diversi ragionamenti: l’esercizio del potere. Nell’Italia di quegli anni, chi lo aveva davvero?
Rispetto all’oggi c’è un’infinità di differenze. Al di là dei grandi leader, all’epoca contavano molto di più figure meno conosciute ma che avevano una grande capacità d’influenza. Adesso il potere si è completamente verticalizzato: adesso conta chi finisce in prima pagina. Questo determina anche una differenza nella percezione del potere. La mia generazione dava più credito alla solidità dell’esercizio del potere, adesso si è più inclini a credere che non lasci traccia.
Al di là di quella telefonata, qual era il suo rapporto con Cossiga?
C’era simpatia reciproca, ho chiacchierato amabilmente più volte con lui. Diciamo che sono stato uno dei privilegiati che ha beneficiato della sua indulgenza. Sapevo che esisteva l’omino bianco e quello nero. Alcuni dei suoi discorsi dovevano essere presi alla lettera, mentre altri erano indubbiamente più fantasiosi.