Skip to main content

Disarmare le parole per ritrovare credibilità. La lettera del papa letta da Cristiano

Disarmare le parole è il primo passo che Francesco vede necessario per riuscire a bonificare l’aria, per disarmare le menti e quindi disarmare la Terra. Riccardo Cristiano riflette sulla lettera inviata al Corriere della sera da papa Francesco

La lettera al direttore del Corriere della Sera di Francesco, così firmata, senza altri vocaboli a precederla o a seguirla, dovrebbe proprio essere letta. Ha a che fare innanzitutto con chiunque informi, e quindi estendendo un po’ la parola con tutti noi. Il punto di partenza che sceglie Francesco sono le parole e le definisce “fatti che costruiscono gli ambienti umani”. Dunque si riferisce anche alle parole che compaiono sui social, parte di questo fiume di parole che può “collegare o dividere, servire la verità o servirsene”. La sua proposta è questa: “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”. È vero che, proseguendo nel suo breve e incisivo testo, si trova anche un’altra proposta: “La diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità”. A me sembra che l’ordine nell’esposizione sia importante: se disarmiamo le parole, se ragioniamo ognuno un po’, quanto può, per il ruolo che ha, sulla complessità, la diplomazia e gli organismi internazionali potranno ritrovare credibilità.

Disarmare le parole è il primo passo che Francesco vede necessario per riuscire a bonificare l’aria, per disarmare le menti e quindi disarmare la Terra.

Il magistero di Francesco è molto conosciuto, nella sua accessibilità e in virtù della sua forza comunicativa: e una delle parole più importanti e abbastanza note che lui ha care è “processi”, non i processi giudiziari, o i processi ai nemici, ma al contrario quei processi storici, culturali, di cui ha di sovente visto la primazia rispetto al controllo degli spazi. Per fare questo, avviare processi, c’è un altro vocabolo che ha indicato: incompletezza. Sapere che il nostro pensiero è incompleto, deve risultarci consapevolmente incompleto, lo apre all’altro, alla realtà dell’atro, io direi alla verità dell’altro. Il pensiero completo è un pensiero chiuso, nel quale nessuno può entrare, inserire un altro dato, è quindi rigido. È il pensiero che radicalizza negli opposti estremismi. Tanto più una radicalizzazione si afferma tanto più si afferma quella opposta in opposte e analoghe rigidità totali, impenetrabili.

Questo rende impossibile l’azione diplomatica e l’esistenza stessa di organismi internazionali. Per invertire il senso di marcia, avviare un altro processo, Francesco individua il terreno che tutti ci riguarda: la comunicazione, la parola che usiamo per informare anche solo su come percepiamo un determinato accadimento. Tutte queste parole, sempre più incompatibili tra di loro, creano un ambiente umano di incompatibilità. Facciamo un esempio a tutti noto: è frequente l’uso del termine “pacifinti” come di “guerrafondai”. Queste parole chiudono gli spazi e impediscono di avviare processi, non sussiste possibilità di riconoscere incompletezza nel mio pensiero se vedo gli altri, l’altro, come un “pacifinto” o un “guerrafondaio”.

Il suo discorso mira all’utopia: disarmare la Terra. È possibile vivere senza utopie? Utopia significa “non luogo” e la Treccani spiega il senso di questa parola così: “Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale”.

Io direi che è “l’orizzonte” verso il quale andare sapendo che sempre si sposta, restando tale. Ma intanto posso camminare nella sua direzione. Ma c’è un altro vocabolo meno usato che ci fa cogliere il valore dell’utopia: questo vocabolo, ora finalmente un po’ recuperato, è distopia, sempre per la Treccani questo vocabolo prefigura “situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi”. Siamo a un passaggio distopico della nostra vicenda. È a rischio la democrazia?

Il leader della nuova sinistra liberale transalpina, Raphael Glucksman, ha chiesto che la Statua della libertà torni in Francia. Il vice presidente degli Stati Uniti ha detto che in Europa manca libertà. Basta per capire dove siamo? Ha senso in questo frangente dividersi tra “pacifinti” e “guerrafondai”? O non dovremmo tutti disarmare le parole?

Ogni sostenitore del riarmo europeo si sentirà facilmente rappresentato da queste parole, sentendosi minacciato da parole altrui e credo che anche i pacifisti riconoscano che questa sia un’esigenza, anche nelle loro polemiche politico-culturali. Questo iniziale disarmo delle parole, se consentisse anche il riconoscimento di una minima incompletezza del proprio pensiero, potrebbe svelenire il clima e consentire di avviare un processo, che poi io credo sia l’essenza del discorso di Francesco.


×

Iscriviti alla newsletter