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I costi della specializzazione

Certamente non si può dire che la Smart defence sia un argomento nuovo. Da alcuni anni a questa parte questa definizione ha oscillato tra alti e bassi, tra sostanza e maniera, presentandosi a volte come il silver bullet per uccidere lo scarso coordinamento e la limitata sinergia delle nazioni europee nelle loro spese per la difesa, e a volte come una modalità politically correct per assecondare un’iniziativa più di facciata che di sostanza, ma appetibile ai media.
 
È tuttavia innegabile che la difesa intelligente presenti molte attrattive sotto il profilo concettuale e logico. Chi potrebbe infatti negare la razionalità, l’opportunità e la convenienza, se non la necessità, di applicare all’interno della Nato concetti basilari come il pooling e lo sharing degli assetti, la creazione condivisa delle capacità più complesse, impegnative e per molti versi critiche? Parimenti essenziale risulta ovviamente l’eliminazione delle duplicazioni e delle ridondanze, in riferimento alle finalità e allo scenario politico-strategico dell’Alleanza. Il primo risultato dell’applicazione di questo concetto dovrebbe essere la specializzazione delle forze riferita a singoli Paesi o gruppi di Paesi, seguito a ruota da una razionalizzazione degli apparati industriali nazionali i quali, in mancanza di un’autosufficienza proveniente da commesse esterne, saranno costretti a uniformarsi alle richieste provenienti dai loro “clienti di riferimento”, cioè le Difese nazionali.
 
Non a caso, ho fatto riferimento alle finalità e allo scenario relativo all’Alleanza, quale “metro di capacità”. Ma in quale misura queste coincidono con i singoli interessi nazionali e, soprattutto, in quale misura sono percepite la governabilità della Nato da parte delle singole nazioni e la capacità dell’Alleanza di fare salvi gli interessi di tutti gli attori, particolarmente in quelle circostanze dove potrebbe essere richiesto l’uso dello strumento militare? Esempi al riguardo ve ne sono e non sempre rappresentativi di condivisione e di linearità. Cosa si può dire quindi a una nazione che dovrebbe privarsi di mezzi e capacità faticosamente acquisiti nel tempo, ai fini di un processo di razionalizzazione sovranazionale che dovrebbe poi vederla fruitrice delle medesime capacità possedute da altri, anch’essi portatori di interessi propri? Nazioni spesso e volentieri capaci, con i loro “no” o con le loro fughe in avanti, di condizionare persino le operazioni, poiché i meccanismi decisionali della Nato prevedono il consenso? Giova ricordare come una volontà di razionalizzazione assai spinta, una “non duplicazione” totale, una robusta fiducia che altri potranno fare e bene il nostro lavoro nel nostro ambiente operativo, spesso non sono rilevabili neppure in ambiente interforze, nell’ambito di una stessa nazione. Figuriamoci tra nazioni diverse!
 
A questo punto è imprescindibile parlare dell’aspetto della razionalizzazione/specializzazione forse più pesante e complesso, cioè quello industriale. Si sente dire che l’attuale crisi economica potrebbe essere il catalizzatore di questa riorganizzazione, “costringendoci” alla sinergia. Ritengo che questo sia un concetto assai discutibile, anzi non vero, in quanto è proprio in tempo di crisi che la limitatezza degli ordini e la mancanza di lavoro riducono i margini di flessibilità e di negoziazione delle imprese. E anche dei Paesi, dove a fronte di un pur possibile guadagno futuro non si possono sacrificare impunemente livelli occupazionali di per sé già in riduzione, soprattutto nei settori ritenuti di eccellenza: i veri “gioielli di famiglia” sui quali impostare in futuro la ripresa e il portafoglio per nuovi accordi e iniziative. Di fatto, a parte i tagli puri e semplici di attività e di capacità, dei quali comunque deve essere considerata la ricaduta e gli effetti ultimi sulla comunità, qualsiasi cambiamento, che sia in nome della razionalizzazione, dell’economia o dell’efficacia, comporta inevitabilmente un impiego iniziale di risorse extra in termini finanziari, economici e organizzativi. Sforzo addizionale che solo con il tempo sarà ripagato. Va sempre ricordato che la parola gratis nelle situazioni reali di solito non è applicabile.
 
Qual è quindi il futuro dell’Alleanza per la Smart defence, visto l’immobilismo effettivo e l’attivismo di maniera di fronte a queste diffuse difficoltà? La logica delle idee e dei fatti ha una sua grande forza, per cui quanto postulato da questa formula finirà per trovare nel tempo scopo e interpreti efficaci. Ma va anche detto che il migliore fertilizzante sarebbe una maggiore, effettiva integrazione politica dell’Unione, diretta destinataria di questo concetto. E l’Italia? Così come Roma, anche la difesa intelligente non si può fare in un giorno, la stessa Nato parla di Difesa 2020 e anche se si andasse un po’ lunghi nessuno se ne avrebbe a male, purché si ottengano i risultati. In questo processo, il nostro Paese non è tuttavia esente da rischi industriali, militari e politici che dovranno essere affrontati e governati al meglio. Ma per poterlo fare occorre ricorrere a un concetto vecchio, spesso celebrato, qualche volta abusato e quasi mai applicato: il sistema-Paese.
 
Un sistema dove prima si definiscano gli interessi nazionali, la loro valenza e le modalità di perseguirli, individuando i margini entro i quali si è disposti a modificarli, o anche sacrificarli, a fronte di un interesse superiore condiviso. È infatti evidente che prima di negoziare con i partner per ottenere le condizioni migliori occorre avere le idee ben chiare in casa propria. L’industria della difesa è un assetto potente ma delicato, dalle forti ripercussioni economiche e sociali. Deve essere quindi adeguatamente indirizzato e reso sempre più competitivo, ma al tempo stesso supportato nei cambiamenti e in quei processi di razionalizzazione ai quali non potremo sottrarci.


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