Il pressing dei Paesi frugali per uno smobilizzo in massa degli asset sotto chiave sta aumentando, ma c’è ancora uno zoccolo duro che fa resistenza. E lo stallo è servito. Una cosa è certa, per ricostruire l’Ucraina serviranno il doppio delle risorse
Miliardi, nel ghiaccio. Poco meno di 200, per la precisione. A tanto ammonta il tesoretto, se così si può chiamare, custodito nei forzieri europei. Sono i soldi che la Russia ha sempre detenuto nel Vecchio continente e che ora sono stati messi sotto chiave in attesa di una loro destinazione. Ed è proprio questo il punto, che farne? Bisogna mettere insieme tutti i tasselli per capire bene il quadro. Tanto per cominciare, ad oggi l’Ucraina ha ricevuto un assegno di 3 miliardi, prima rata del più cospicuo maxi-prestito da 50 miliardi accordato a Kyiv dal G7 di Borgo Egnazia, lo scorso mese di giugno. Restano parcheggiati 47 miliardi, più altri 150, che sommati danno la cifra di cui è, almeno virtualmente, in possesso l’Europa. Ma è la politica a decidere e, qui, non tutte le pedine sono al loro posto.
La Banca centrale europea, per esempio, fino a poche settimane fa era assolutamente contraria a una monetizzazione in massa di tutti gli asset congelati, per paura di una palese violazione del diritto internazionale e degli effetti nefasti di questa sulla fiducia degli investitori nel sistema Europa. Poi però il fronte dei governatori ha cominciato a sgretolarsi, anche per effetto del pressing dei Paesi frugali, come la Finlandia. E le prime crepe hanno cominciato ad aprirsi anche tra i governi dell’Ue, anche sull’onda del timore che un disimpegno americano dal continente possa lasciare sguarnito il fianco est e, soprattutto, l’Ucraina senza gli aiuti necessari per proseguire la guerra e sostenere la ricostruzione, una volta raggiunta la pace.
Adesso la spinta arriva da alcuni amici dell’Ucraina: Polonia, Regno Unito e gli stati baltici Lituania, Lettonia ed Estonia, che vogliono fare di più con i circa 210 miliardi di euro allocati negli Stati membri dell’Unione europea, con la fetta più grande, 183 miliardi di euro, presso il consorzio belga Euroclear. Altri importi sono presso istituzioni finanziarie in Gran Bretagna, Giappone, Francia, Canada, Svizzera, Australia e Singapore. A spingere verso un più ampio ricorso ai beni russi congelati c’è anche un mero calcolo. La Banca Mondiale stima, per esempio, che ricostruire l’Ucraina costerà 524 miliardi di dollari (478,6 miliardi di euro) in 10 anni, già più del totale dei beni russi sotto chiave. Dunque, anche monetizzare gli asset congelati per intero, non basterebbe.
Eppure c’è chi ancora chi si oppone, con il rischio di vanificare ogni sforzo per un utilizzo massiccio degli asset. Senza un voto compatto in sede europea, infatti, sarà difficile erogare all’Ucraina più di qualche decina di miliardi. Francia, Germania e Belgio, tanto per citarne alcuni, si oppongono al sequestro e alla liquidazione dei beni, sostenendo che i medesimi asset non potrebbero essere utilizzati come merce di scambio in nessun accordo di pace o per aiutare a far rispettare un cessate il fuoco. Il ministro delle Finanze francese, Eric Lombard, poche ore fa ha affermato martedì che è contro il diritto internazionale sequestrare asset senza basi legali: “Potrebbe rappresentare un rischio per la stabilità finanziaria europea”. La strada è ancora lunga.