La strada da seguire, se davvero si volesse cambiare, è chiara. Da un lato, serve una riforma fiscale coraggiosa, che alleggerisca il peso sul lavoro e corregga le distorsioni del fiscal drag. Dall’altro, è necessaria una rivoluzione contrattuale che sappia valorizzare produttività, competenza e merito. Il commento di Raffaele Bonanni
Da anni il tema dei salari stagnanti in Italia anima il dibattito pubblico, senza che si intravedano soluzioni concrete. Ora anche l’Oil, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, certifica una realtà ormai evidente: dal 2008 a oggi i salari reali degli italiani sono diminuiti dell’8%. Altrove lo scenario è ben diverso. In Francia, nello stesso periodo, i salari sono aumentati del 5%, in Germania, addirittura del 15%. Le difficoltà italiane sono profonde e strutturali, spesso mascherate da interventi estemporanei messi in campo da governi più interessati al consenso immediato che a risolvere i nodi di fondo. Ma le radici del problema sono chiare e ben conosciute.
Il primo grande ostacolo è il nostro sistema fiscale, tra i più gravosi d’Europa. La somma di imposte dirette, indirette e tributi locali supera persino quella dei Paesi scandinavi, che però offrono ai loro cittadini un sistema di welfare di altissimo livello. In Italia, invece, il peso fiscale grava su lavoratori e imprese senza offrire servizi equivalenti in cambio. E come se non bastasse, entra in gioco anche il cosiddetto fiscal drag: quel meccanismo distorto che fa sì che ogni aumento contrattuale, pensato per recuperare potere d’acquisto, finisca per spingere il lavoratore in uno scaglione fiscale superiore.
Così, l’incremento si riduce o addirittura si annulla, portando con sé la beffa di intaccare parte del salario precedente. Altri Paesi hanno affrontato il problema indicizzando le aliquote fiscali o introducendo correzioni automatiche. In Italia, invece, si preferisce non intervenire: i governi continuano a far cassa, distribuendo bonus a pioggia per quietare il malcontento, senza però affrontare i veri dossier che frenano il Paese. Il risultato è un malessere crescente e una stagnazione salariale senza prospettive di inversione di tendenza.
L’altra grande causa dei salari fermi è la cronica debolezza della produttività, ferma da oltre vent’anni. La ragione principale è la colpevole mancanza di investimenti in innovazione e nella manutenzione dei fattori dello sviluppo. Eppure, dove la produttività cresce, i salari seguono. È il caso di alcuni settori d’eccellenza del made in Italy, come l’alimentare e la meccanica, e anche dell’edilizia, spinta dai capitali del Pnrr per la realizzazione di un gran numero di opere pubbliche. Lo stesso si può dire per il comparto bancario, profondamente ristrutturato nell’ultimo quindicennio. In questi comparti più dinamici, la contrattazione aziendale di secondo livello è molto diffusa e il salario di produttività premia il merito e l’impegno, generando un circolo virtuoso.
La strada da seguire, se davvero si volesse cambiare, è chiara. Da un lato, serve una riforma fiscale coraggiosa, che alleggerisca il peso sul lavoro e corregga le distorsioni del fiscal drag; dall’altro, è necessaria una rivoluzione contrattuale che sappia valorizzare produttività, competenza e merito. Le parti sociali e la politica devono smettere di limitarsi a proclami e buone intenzioni. È tempo di agire. Perché governare un Paese non significa commentare i problemi, ma risolverli.