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Difendere la democrazia, ecco la sfida incompresa del Libro Bianco per la Difesa. L’analisi di Zecchini

Se il salto verso la Difesa europea non è possibile, ebbene la proposta rappresenta il primo passo nella stessa direzione. Ostacolarlo significherebbe compiere un madornale errore storico e perdere un’occasione unica per fare avanzare al contempo la coesione tra i membri e la crescita del reddito nazionale. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista dell’Ocse

Come era prevedibile la presentazione del Libro Bianco sulla Difesa Europea, al pari del precedente ReArm Europe, ha rinfocolato in Italia polemiche, furore populista e divisioni su un tema vitale per il futuro della democrazia e per l’affermazione dei valori di libertà, stato di diritto e pace che stanno a fondamento tanto del nostro sistema quanto di quello dell’Unione Europea e dei paesi membri che vi si riconoscono realmente. Divisioni che hanno investito sia la maggioranza politica, che l’opposizione e, non riuscendo a ricomporsi, si sono estese fino alle votazioni parlamentari a Strasburgo e a Roma.

Sotto alcuni aspetti questi contrasti sono comprensibili per un Paese che per decenni non ha affrontato il tema della sua difesa, apparentemente schermandosi dietro un pacifismo ad ogni costo, ma di fatto perché ha abdicato alla responsabilità di provvedere alla sua difesa anche nell’ambito dell’alleanza Nato a cui ha aderito fin dal secondo dopoguerra. Il compito in effetti l’aveva affidato principalmente al leader della coalizione di paesi, gli Stati Uniti per la loro forza tecnologica, economica e militare.

Il risultato di questo atteggiamento è apparso evidente sotto due profili. Da un lato, il Paese non dispone attualmente di una capacità seppur modesta di difendersi da un’aggressione esterna come quella che si sta svolgendo sul fronte orientale dell’Ue. Dall’altro lato, non è in grado di sottrarsi alla notevole influenza americana sulla sua evoluzione politica, né di dissociarsi dalle scelte di politica estera più discutibili, quale la seconda Guerra del Golfo. Anche nelle decisioni in sede europea, ha tenuto presente l’atteggiamento americano per mantenere una concordia anche su questioni in cui gli interessi tra le due sponde dell’Atlantico non convergevano.

La coesione Europa-Usa ha funzionato nel mantenere un ordine internazionale che ha prevenuto i conflitti armati in Europa, eccezion fatta per il Kossovo, e ne ha limitato l’insorgere in altri scacchieri mondiali. Con l’avvento della presidenza Trump e l’aggressività della Russia insieme a quella della Cina in forme finora limitate, la coesione occidentale e la stabilità di quell’ordine internazionale appaiono sconvolte. Il sistema di relazioni tra Stati fondato sull’adesione alle regole di pacifica convivenza emerse dalla fine della Seconda guerra mondiale è andato fragorosamente in pezzi. L’apparente disimpegno dell’America dalla difesa di tutta l’Europa e la guerra commerciale che ha innescato mettono i paesi dell’Ue di fronte alla dura realtà di dover costruire le condizioni per acquisire una propria autonomia nel difendere i loro valori nonché i propri interessi, specialmente laddove non siano coincidenti con quelli del maggiore alleato.

Apparentemente si sta scivolando verso un nuovo ordine globale, dominato dai rapporti di forza e dalle contingenti convenienze delle tre maggiori potenze militari e caratterizzato dalla imprevedibilità del rispetto da parte loro delle regole di pacifica convivenza e dei trattati internazionali. Nei casi di inosservanza i meccanismi sanzionatori verso i trasgressori sembrano divenire sempre meno efficaci. In un simile scenario, per l’insieme dei paesi europei che non vantano pari forza è vitale mirare ad acquisire peso attraverso una forte coesione di interessi ed azioni, diretta a salvaguardare libertà, indipendenza e autonomia decisionale. Laddove non si riesca a raggiungere la necessaria coesione a ventisette paesi

membri, è auspicabile che il nucleo storico dei fondatori dell’Unione serri i ranghi e si faccia carico di perseguire questo disegno con impegno di risorse crescenti, senza attendere la partecipazione di altri membri. Altri potranno aggregarsi cammin facendo, sempre partendo dal nucleo organizzativo europeo costituito nel quadro della Nato. L’alternativa a questo scenario sarebbe per i paesi dell’Ue mantenere il ruolo di gregario in una alleanza in cui la loro voce diviene sempre meno influente.

Il Libro Bianco non è esplicito nel tracciare scenari evolutivi, ma appare in linea con queste premesse. Nell’introduzione riconosce che un rovesciamento dell’ordine passato è in corso e non appare possibile un ritorno al passato. Da qui la costatazione che la difesa di uno basato su regole condivise è “nell’interesse nostro (dei paesi membri) ed espressione dei nostri valori”. Chiama, quindi, l’Europa ad affrontare la realtà di dover scegliere per il suo avvenire tra due alternative: o “cavarsela in qualche modo in futuro tentando di adattarsi alle nuove sfide a piccoli passi e sempre con prudenza”; oppure “decidere sul suo futuro, libera da coercizioni e aggressioni per assicurare alla sua gente di vivere in sicurezza, pace, democrazia e prosperità”. Nel primo caso, l’Europa non avrà capacità d’influenza e dovrà accettare passivamente le conseguenze dei conflitti tra Stati con le ripercussioni anche peggiori (la guerra) che ne potrebbero discendere.

Ovviamente, scenari intermedi sarebbero possibili, ma in assenza di azioni efficaci e avendo un peso incomparabilmente inferiore a quello dei tre grandi, la capacità europea di stabilire e consolidare la sua posizione futura nel concerto delle nazioni risulterebbe insignificante, sempre che non si impegnasse in grandi investimenti nella sua sicurezza. E nel futuro dell’Europa è fondamentale il futuro dell’Ucraina. Come si sostiene nel Libro Bianco, continuare come nel passato porterebbe gli Stati membri a vedersi “sminuiti, divisi e vulnerabili”.

Questo è il presupposto su cui poggia la proposta della Commissione. Purtroppo in Italia le critiche degli oppositori non vertono sul confutare questa analisi con argomentazioni ragionate, ma si lanciano in condanne infondate, o in fughe in avanti verso scenari irrealizzabili nell’attuale contesto storico. Alcuni si scagliano contro la proposta, marcandola come “furia bellicista”, altri la bollano come un programma di riarmo dei singoli Stati e non per una difesa comune, altri ancora la ritengono priva di una logica e chiedono un piano ragionato di investimenti in infrastrutture militari. Tralasciando le critiche animate da polemica politica disancorata dal contesto reale delle sfide imposte dal quadro internazionale, bisogna chiedersi quanto di fondato o realizzabile vi sia nelle altre.

Innanzitutto, la proposta sembra promanare da esperti competenti che hanno fatto una valutazione realistica delle deficienze delle strutture di sicurezza e dei mezzi di difesa disponibili nell’Ue. Non si tratta, quindi, di un piano o programma, peggio ancora raffazzonato in fretta e furia, ma di una proposta ben fondata, preparata da competenti, che va articolata successivamente nei dettagli operativi nelle sedi tecniche e politiche appropriate. L’esperienza di tre anni di appoggio alla resistenza ucraina contro gli invasori russi ha svelato le grandi dimensioni delle debolezze e vulnerabilità europee in molti campi e quanto limitati siano i punti di forza. L’Europa non riesce addirittura a fornire le munizioni sufficienti a sostenere lo sforzo operativo degli ucraini, e le differenze negli standard e degli equipaggiamenti forniti dagli Stati rendono oltremodo complicato per gli ucraini destreggiarsi nel loro uso. Facile immaginare cosa avverrebbe se fossero i paesi dell’Ue a doversi difendere con strumenti così difformi, forniti dai loro partner.

Illogico anche contrapporre alla proposta di riarmo degli Stati il progetto di una difesa comune. I due non sono in contraddizione, perché la seconda non può essere disgiunta dalla prima, in quanto quest’ultima è a fondamento della seconda. Non può esistere difesa comune senza un riarmo dei membri secondo linee condivise tra gli stessi. In realtà, la proposta si compone di un intenso coordinamento delle azioni dei singoli nella difesa, sulla condivisione della governance del programma, sulla standardizzazione dei mezzi, sugli investimenti e le commesse in comune tra gruppi di paesi, sulla ricerca tecnologica congiunta tra paesi e sul potenziamento delle capacità industriali. Sono punti sulla cui pretesa assenza si appuntano alcune critiche, che peraltro sembrano non tener conto che la loro definizione in dettaglio fa parte della fase successiva di articolazione operativa del piano.

Obiezione ben più fondamentale è di coloro che accusano la proposta di non rappresentare un progetto di difesa “comune”, ossia con forze armate unitarie, governance unica, investimenti dell’Unione e non dei singoli membri, ricerca e sviluppo di sistemi unici per tutta l’Ue, finanziamenti europei e non nazionali, e dotazioni strumentali rispondenti a un unico disegno e realizzati con una base industriale rispondente alle richieste di una governance unica. Sarebbe un traguardo ottimale, che metterebbe l’Europa nelle stesse condizioni degli Usa, dove non esistono né tutto il frazionamento di sovranità e obiettivi, né le difformità di strumenti che si incontrano in Europa tra gli Stati.

Sostenere questa tesi è irrealistico allo stato attuale dell’Ue perché sembra ignorare la mancanza di volontà degli Stati di realizzare i suoi necessari presupposti, perfino di fronte alla minaccia russa. Una difesa comune presuppone, infatti, una struttura di governo unica e una di comando unica. In altri termini, ha come premessa una forma di Stato di tipo federale o confederale, che appare lontana dall’attuale configurazione sui generis dell’Ue. Una federazione o una confederazione può rappresentare un modello ideale verso cui tendere, ma certamente non è il regime esistente, né un modello condiviso da una parte degli Stati membri. Una difesa comune comporterebbe cessioni di sovranità nazionale di una portata tale da potersi giustificare soprattutto nel contesto di queste forme di governo, o in situazioni di emergenza bellica e anche in quest’ultima evenienza solo a certe condizioni.

L’esperienza storica delle due guerre mondiali è chiaramente indicativa. Né nella prima, né nella seconda si giunse a un comando unico, ma solo a un coordinamento delle forze alleate su piani militari generali, lasciando alle forze nazionali l’articolazione operativa. Nella prima i francesi nella parte finale assunsero un ruolo di guida suprema verso gli inglesi (ma non verso gli americani) entro certi limiti, mentre nella seconda gli inglesi cedettero il comando agli americani sul principale teatro europeo, ma non sul fronte italiano. In entrambi gli eventi il coordinamento delle forze avvenne sotto una governance politica al cui interno si risolvevano i dissidi nella consapevolezza del ruolo preminente del presidente americano. Una difesa comune richiede anche una politica estera comune. Nell’Ue non si è ancora giunti a questo traguardo, ma soltanto a una limitata convergenza su alcuni temi caldi, mentre gli Stati membri continuano a condurre politiche indipendenti, specialmente verso i paesi non-Ue di rilievo, compreso anche l’atteggiamento verso gli Usa.

La protezione fornita da una difesa comune potrebbe considerarsi come appartenente alla categoria dei cosiddetti beni pubblici europei qualora tutti ne beneficiassero senza poterli rifiutare e senza determinare rivalità nel beneficiarne. Tuttavia sono possibili esclusioni della protezione per quei paesi che perseguissero strade alternative a un approccio comune. Qualora invece rientrassero in quella categoria il finanziamento dovrebbe essere in comune, ma non necessariamente nell’ambito del bilancio comunitario in cui la distribuzione dell’onere è predefinita. Altre chiavi di ripartizione sarebbero possibili al di fuori del bilancio europeo, ad esempio secondo contribuzioni a un fondo comune istituito allo scopo.

Il Libro Bianco propone schemi di finanziamento che ricorrono per una parte minore al bilancio europeo e per la maggior parte ai bilanci nazionali. Non tutti i paesi membri, tuttavia, dispongono della capacità fiscale e di nuovo indebitamento adeguata a sostenere un considerevole incremento delle spese per la difesa senza subire contraccolpi nella disponibilità e nel costo della copertura finanziaria. Per un paese con eccesso di indebitamento, come l’Italia, si stima che le maggiori spese per rafforzare la difesa, come previsto dalla proposta, impedirebbero di rispettare l’impegno preso nell’ambito del Patto di Stabilità di ridurre il rapporto debito/Pil nel corso dei prossimi sette anni. L’alternativa sarebbe la spinosa scelta di limitare altre spese rilevanti per il benessere sociale. Nondimeno, la moderna ingegneria finanziaria può offrire soluzioni meno ardue, ad esempio il ricorso a garanzie su crediti e altri meccanismi fuori bilancio.

L’impegno sarebbe meno gravoso se si riuscisse a ravvivare la crescita economica. Un coraggioso piano per la sicurezza e difesa andrebbe in questo senso: condurrebbe al potenziamento della ricerca e dell’innovazione con ricadute positive per le produzioni per il civile, incrementerebbe la capacità produttiva, rinnoverebbe la base industriale secondo le nuove tendenze della digitalizzazione, migliorerebbe le competenze e aumenterebbe l’occupazione. In breve, farebbe da stimolo alla crescita. Le esperienze internazionali ne sono prova e tutti questi aspetti vanno tenuti presente nelle valutazioni del Governo.

La proposta von der Leyen, infine, ha il pregio di mantenersi entro i limiti istituzionali fissati nel Trattato sull’Unione, che non assegna alla Commissione competenze in materia di difesa. Al tempo stesso, la Commissione utilizza lo spazio assegnatole per sollecitare i paesi membri a potenziare la difesa collettiva attraverso concrete misure di coordinamento, armonizzazione e finanziamento, per quanto limitato. Se il salto verso la difesa europea non è possibile, ebbene la proposta rappresenta il primo passo nella stessa direzione. Ostacolarlo significherebbe compiere un madornale errore storico e perdere un’occasione unica per fare avanzare al contempo la coesione tra i membri e la crescita del reddito nazionale.


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