Le imprese italiane investono negli Usa più di quanto questi ultimi facciano nello Stivale. E anche il risparmio è benzina per l’America. Una carta che Meloni può giocarsi a Washington
Di troppo protezionismo si vive, di troppo protezionismo di muore. Quando il prossimo 17 aprile Giorgia Meloni volerà da Donald Trump con ogni probabilità avrà in testa un solo obiettivo: convincere il presidente degli Stati Uniti a negoziare sui dazi, per allentare la pressione sui mercati e concedere spazio di manovra alle imprese europee e italiane che esportano nella prima economia globale. E questo nonostante la moratoria di 90 giorni concessa dal capo della Casa Bianca. E avrà una carta da giocare o comunque una piccola leva. Premessa: nel 2024 i Paesi Ue hanno esportato beni per 531,6 miliardi in America e ne hanno importate per 333,4 miliardi, con un saldo positivo di circa 198 miliardi. Dunque, fin qui la tesi di Trump per riequilibrare la bilancia commerciale in favore degli Usa, reggerebbe.
Ma allargando lo spettro e prendendo come metro di misura due specifiche voci, emerge come un protezionismo cieco non convenga a nessuno. Insomma, c’è una carta che l’Italia può giocare per provare strappare un’apertura e portare a casa il sospirato zero a zero a cui Meloni punta: i rispettivi e intersecati pesi specifici commerciali e finanziaria.
Per capire di che cosa si tratta, bisogna guardare i numeri. Si prendano per esempio i flussi relativi agli investimenti diretti esteri tra Italia e Stati Uniti. Secondo i più recenti dati elaborati da Bankitalia, nel 2023 gli investimenti esteri diretti dell’Italia negli Usa hanno toccato quota 3,5 miliardi, portando lo stock complessivo a 65 miliardi. Di contro, alla stessa voce, gli investimenti americani nella Penisola, nel medesimo anno di riferimento (i dati sul 2024 sono ancora in elaborazione), hanno di poco superato gli 1,2 miliardi, per un monte-investimenti di 20 miliardi. La differenza c’è: l’Italia investe negli Stati Uniti più di quanto questi facciano nel Bel Paese. A pesare su questi dati c’è anche un discorso legato al bacino: le imprese italiane che esportano negli Usa hanno un mercato in potenza di oltre 300 milioni di persone, mentre il corrispettivo italiano per Washington è decisamente minore, circa 60 milioni.
Questi numeri sembrano suggerire una prima conclusione. Da un punto di vista degli investimenti, un protezionismo a oltranza che possa imbrigliare gli investimenti italiani negli Usa, non sembra convenire a nessuno, né all’Italia, né tanto meno agli Stati Uniti. Non è finita, c’è un altro aspetto da considerare. Qui entra in gioco la finanza, nello specifico il risparmio. Negli ultimi anni, la finanzia americana, ha conquistato molto terreno in Europa negli ultimi anni, tanto che i risparmi europei gestiti da società statunitensi, hanno raggiunto i 4.500 miliardi sul finire del 2024.
E non è un caso che Mario Draghi, nel suo voluminoso rapporto sulla competitività europea abbia messo nero su bianco come ogni anno circa 300 miliardi di risparmi europei siano investiti all’estero, anzitutto in America. Stringendo il campo sull’Italia, è arcinoto come lo Stivale sia terra di grandi risparmiatori (i beni privati delle famiglie italiane, inclusi i conti correnti, sono costantemente sopra i 10 mila miliardi di dollari, oltre tre volte il debito pubblico). Molto spesso tali risparmi alimentano quei fondi americani che poi vengono a investire in Italia, portando a loro volta valore e ricchezza. Una situazione che, complice un corto circuito protezionista, potrebbe cambiare nei prossimi mesi, sottraendo benzina al motore di Wall Street e, quindi, alla crescita degli stessi asset manager statunitensi.