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Oggi non è in gioco solo un governo

Si giunge oggi alla conclusione parlamentare del governo nato ad aprile, perché è in gioco qualcosa che va oltre il governo stesso: la nascita (o meno) di una cultura di “Grosse Koalition all’italiana”.

Si è infatti discusso fino ad oggi se doveva o no essere presentata una vera e propria mozione di fiducia; si è discusso se le dimissioni dei ministri fossero da considerare definitive o meno; si è lungamente immaginato che potesse esservi una vera e propria scissione del Popolo della Libertà-Forza Italia; non si è nemmeno escluso una sorta di nuovo voto di fiducia ad un governo Letta peraltro non condizionato ad un termine molto breve, perché tenuto in vita per tutti i 18 mesi dei quali aveva parlato il premier all’atto dell’insediamento.

Tutte queste questioni troveranno un esito formale nelle votazioni che si svolgeranno alla Camera e al Senato sulla base delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Abbiamo assistito al richiamo a Kafka, a Pulcinella, a Pirandello. Solo per ricordare i più illustri richiami di questa molto strana vicenda politico-istituzionale. In fondo sono stati presenti negli ultimi giorni gli elementi kafkiani, quelli pulcinelleschi e quelli pirandelliani, ma probabilmente ve ne è stato uno che in qualche modo li riassume tutti in termini di radicale profondità culturale: la “Grosse Koalition all’italiana”.

Occorre infatti saper guardare alla attuale democrazia tedesca con la consapevolezza che alla sua definizione hanno concorso sia i ricordi positivi della Costituzione di Weimar; sia il ricordo drammatico degli anni hitleriani; sia l’esperienza storica della divisione in due Stati.

Non si tratta dunque di una semplice esperienza giuridico-istituzionale, ma di una ben più profonda vicenda storica, culturale ed istituzionale.

L’Italia infatti, dalla sua nascita ad oggi, ha attraversato almeno tre grandi questioni che non hanno reso percorribile la strada della grande coalizione: la questione romana che aveva radicalizzato lo scontro tra laici e cattolici; il ventennio fascista; la Guerra Fredda che ha a lungo contrapposto l’Unione Sovietica al resto del mondo.

In ciascuna di queste tre fasi c’è stato un elemento che ha impedito l’affermarsi di una cultura disponibile alla grande coalizione: il concetto stesso di libertà che sembra non trovar pace nel rapporto tra laici e cattolici; l’esito fascista e quanto meno tardivo del nazionalismo mussoliniano; il comunismo sovietico fino alla sua conclusione nel 1991.

E in quella che siamo soliti chiamare “Seconda Repubblica” sembra che sia sorto un nuovo elemento di rottura culturale prima ancora che istituzionale: il rapporto tra consenso popolare e potere giudiziario.

Nella concreta esperienza di questa cosiddetta Seconda Repubblica si è infatti via via affermata una sorta di deriva populistica che ha dato vita successivamente all’esperienza di “partiti personali” che si sono basati conseguentemente sull’entità del consenso elettorale, prima ancora che sulla ricerca di una radicale e consistente coesione sociale.

La ricerca del consenso elettorale ha teso a divaricare i soggetti politici, molto più che a renderli disposti ad andare oltre un puro sostegno all’esecutivo, come è avvenuto nel caso del governo in carica.

Quel che avverrà oggi in Parlamento potrà pertanto finire con il rappresentare una specie di “Bad Godesberg all’italiana”.
Si tratterebbe – in questo caso – di un passaggio necessario per andare da riluttanti e minimaliste larghe intese, ad un vero e proprio spirito di grande coalizione.


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