Giorgia Meloni è riuscita a costruire quel ponte tra Washington e Bruxelles che, per quanto provvisorio, può tuttavia garantire almeno l’inizio di una possibile schiarita. Un rapporto quello tra Trump e Meloni che è stato costruito su una comune consapevolezza. Quella di far parte di un’unica realtà che si chiama “Occidente”. Oggi in crisi. L’analisi di Gianfranco Polillo
Forse è giunto il momento che la sinistra, almeno quella più responsabile, si guardi allo specchio e prenda definitivamente le distanze dagli “sfascisti”. Da coloro cioè che non riescono a guardare in faccia la realtà, senza inforcare gli occhiali dell’ideologia. Ma sarebbe meglio dire della “falsa coscienza” come avrebbe chiosato uno dei padri storici di quello schieramento. Quella sinistra avrebbe evitato pertanto di cumulare brutte figure. Di apparire come petulanti grilli parlanti, sempre pronti nel mettere le braghe al mondo. Salvo poi non voler vedere che quel mondo gira in una direzione opposta e contraria. L’ultimo caso? I giudizi preventivi espressi sul viaggio di Giorgia Meloni nella presunta “tana del lupo”. Quello studio ovale che solo qualche settimana prima aveva visto la debacle di Volodymyr Zelensky sotto l’incalzare più che di Donald Trump, del suo vice JD Vance.
Stia attenta Giorgia Meloni a non farsi fagocitare! Eviti di creare un’insanabile frattura con la Ue! Difenda gli interessi nazionali! Questi, a caso, i tanti e contraddittori commenti dei giorni passati. Un diluvio di parole che hanno accompagnato talk show, dichiarazioni alla stampa, mobilitazione dei tg e via dicendo, fino a creare un assordante rumore di fondo tale da annullare qualsiasi elemento di analisi. Non senza vedere le speranze che taluni avevano riposto in una nuova sfuriata di Trump contro l’Europa, che avrebbe messo la Meloni in seria difficoltà.
Stando a queste prese di posizioni, Giorgia Meloni doveva soltanto rinunciare a prendere qualsiasi iniziativa. Limitarsi a seguire il carro europeo, senza alcuna pretesa di protagonismo. E se si faceva osservare che i contatti con Ursula von del Leyen erano stati continui, scattava, specie in casa 5 Stelle, un riflesso condizionato. È al servizio dei tedeschi e della relativa industria. Va negli Usa solo per favorire le maggiori importazioni di gas e gli acquisti di armi.
Speranze andate deluse. È stato, pertanto facile gioco per Carlo Calenda riconoscere che Giorgia Meloni è riuscita a costruire quel ponte tra Washington e Bruxelles che, per quanto provvisorio, può tuttavia garantire almeno l’inizio di una possibile schiarita. Per carità: nessun trionfalismo, ma nemmeno ingiustificate denigrazioni, come quelle che accusano la premier di aver “svenduto l’Italia” per compiacere l’illustre alleato. Di essersi dimostrata fin troppo compiacente nel promettere acquisto di gas liquido e di armi per contribuire al risanamento del bilancio americano. Mentre ai poveri, in Italia, manca tutto a partire da una sanità pubblica ormai al collasso. Argomenti, questi ultimi, del tutto irrilevanti rispetto al dato del contendere – la geopolitica del mondo – rispetto al quale le varie opposizioni hanno solo dimostrato di non avere idea alcuna.
Resta solo di capire quali siano state le ragioni che hanno portato alla buona riuscita dell’incontro. Sia da parte italiana, ma soprattutto americana. Considerato che lo stesso Trump, in varie occasioni, si è dovuto contenere. Non ha certo rinunciato ad esprimere le proprie valutazioni, ma lo ha fatto con termini diversi da quelli usati in passato, quando l’invettiva più che il giudizio aveva preso il sopravvento. Si pensi solo al caso più spinoso, riguardante l’Ucraina. Di fronte a Giorgia Meloni che ribadisce: “Sapete come la penso. L’Ucraina è stata invasa e l’invasore si chiama Vladimir Putin”, Trump non va in escandescenze. Non fa marcia indietro nei confronti di Zelensky (“Non sono un suo fan”), ma poi è costretto a riconoscere che non fu Volodymyr ad iniziare la guerra.
Diplomazia di entrambi, quindi. Ma qualcosa che è stato costruito su una comune consapevolezza. Quella di far parte di un’unica realtà che si chiama “Occidente”. Oggi in crisi, assediata dal Nord e dal Sud; dall’Est e dall’Ovest. Al centro di rapporti di forza che, da qualche anno sono profondamente cambiati a vantaggio di altri: la Cina, i Brics, potenze regionali come l’Iran o la stessa Turchia. Oppure una Russia che ha mutato pelle. Non più lo Stato entrato a far parte del G7, che per l’occasione si trasformò nel G8 (1994), ma una potenza revanscista che non esclude il ricorso alle armi per soddisfare una propria vocazione imperiale. Per quanto lo stesso Trump possa essere condiscendente verso Putin, il tarlo del dubbio non può che albergare anche nella sua testa.
Giorgia Meloni aveva impostato la sua strategia su presupposti, che in parte la distinguono dagli altri leader europei, come Emmanuel Macron. L’Occidente prima di tutto. In questo schema non c‘è posto per divisioni manichee. Non esiste un’America cattiva e un’Europa buona. Ma due realtà che, nel corso degli anni, hanno entrambe smarrito la corretta via. Commettendo errori che hanno facilitato, in qualche modo, il successo dei propri avversari. Elementi che trovano puntuale riscontro nell’analisi degli avvenimenti passati. Per quel lungo periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al 2008, la “convergenza” era stata il tratto dominante. Convergevano i Paesi europei all’interno della Ue riducendo le distanze tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri. Il modello di economia sociale di mercato diventava preponderante, senza per altro rinunciare agli obiettivi di uno sviluppo il più possibile condiviso.
Nello stesso tempo le distanze tra gli Stati Uniti e l’Europa si riducevano. Basti pensare al Piano Marshall e ai benefici che aveva comportato per entrambe le realtà. Oltre Atlantico aveva consentito una riconversione più celere dal militare al civile, alla fine della guerra. In Europa aveva contribuito a far crescere quella base industriale che la guerra aveva quasi completamente distrutto. Poi l’apertura degli scambi aveva fatto il resto inaugurando la golden age. La stessa nascita dell’Unione, checché ne dicano alcuni economisti, aveva contribuito a rafforzare quei legami: consentendo alle grandi società americane di poter esportare in un mercato unificato e ai grandi gruppi finanziari di acquistare gli asset desiderati.
Nel 2008 le distanze in termini di reddito pro-capite, seppur con alti e bassi, erano progressivamente diminuite, fino a raggiungere una quota minima del 20 a favore degli Usa. Ma all’indomani della Global Financial Crisis del 2008, questa tendenza si era invertita e le distanze con gli Usa avevano raggiunto rapidamente il 100%. Colpa delle diverse politiche seguite per far fronte alla crisi stessa. Fortemente espansive negli Usa; intrinsecamente deflazionistiche in Europa, nel mito dell’austerity. Con un’attenzione soprattutto rivolta ai problemi dell’export e della bilancia dei pagamenti. Con la Germania che conquistava il primato mondiale negli attivi delle partite correnti, superando la stessa Cina, più impegnata a misurarsi con i problemi del suo mercato interno.
Nel frattempo le spese per la difesa di tutto l’Occidente restavano per oltre il 60% a carico degli Usa. Mentre gli altri 29 Paesi, certificati dalla Nato, potevano dedicarsi con tranquillità a contenere deficit e debito pubblico e, al tempo stesso, accrescere la spesa sociale. Cosa, ovviamente, buona o giusta. Dal punto di vista degli europei. Un po’ meno da quello americano. Cui competeva l’onere del compito sporco della difesa di tutto l’Occidente. Ci fosse stato almeno un pizzico di riconoscenza. E invece il grido di “yankee go home” non aveva perso il suo fascino per migliaia di giovani contestatori. Con Giorgia Meloni tutto questo è cambiato. Donald Trump ne ha preso atto. E si è comportato di conseguenza.