Il 25 Aprile, quest’anno, si presenta sotto il segno della sobrietà, ma può e deve essere occasione di verità. Una verità scomoda, forse, per chi preferisce una memoria debole e manipolabile. Ma necessaria, soprattutto per i giovani, troppo spesso lasciati soli davanti a una storia semplificata, svuotata del suo potenziale ideale. Il commento di Raffaele Bonanni
C’è sempre un rumore di fondo che accompagna il 25 Aprile. Non è il suono delle fanfare, né il silenzio raccolto delle corone deposte. È il brusio delle polemiche, delle strumentalizzazioni, delle accuse incrociate. Quest’anno, il lutto per la scomparsa del Pontefice ha spinto il Consiglio dei ministri a invitare alla sobrietà durante le celebrazioni della Liberazione. Un invito, si dirà, comprensibile: il 26 aprile si terranno i funerali solenni, con la presenza dei principali leader del mondo. Eppure, anche questo richiamo al contegno è stato letto da alcuni come un tentativo implicito di sminuire il significato politico e antifascista della giornata.
Ciò che davvero inquieta, però, è che da anni si assiste a un lento ma costante logoramento del senso profondo del 25 Aprile. Il suo spirito originario, quello della Resistenza popolare, plurale, unitaria, viene spesso deformato da chi piega la memoria a una visione faziosa della storia. E non è un problema nuovo: troppe volte la festa della Liberazione si è trasformata in terreno di contesa, persino di esclusione. Rappresentanti democraticamente eletti sono stati contestati, bandiere partigiane messe al bando, combattenti delle brigate ebraiche osteggiati. Episodi che feriscono la memoria collettiva e la riducono a strumento di parte.
Ma la Resistenza non fu proprietà di una sola ideologia: fu un moto di popolo, in cui convergevano cattolici, laici, socialisti, comunisti, liberali. Fu l’unico momento in cui l’Italia si riconobbe unita, non solo contro un nemico esterno, ma per un’idea comune di giustizia e libertà. E oggi più che mai, in un’epoca segnata da nuove guerre e minacce alla democrazia, quel messaggio va riscoperto. Non è casuale, infatti, che vi siano tentativi di leggere la resistenza ucraina all’aggressione russa come un ostacolo alla pace, come una provocazione. Ma sarebbe come dire che i nostri partigiani avrebbero dovuto deporre le armi per non urtare il regime nazifascista. Una logica che capovolge i termini della libertà.
Il 25 Aprile, quest’anno, si presenta sotto il segno della sobrietà, ma può e deve essere occasione di verità. Una verità scomoda, forse, per chi preferisce una memoria debole e manipolabile. Ma necessaria, soprattutto per i giovani, troppo spesso lasciati soli davanti a una storia semplificata, svuotata del suo potenziale ideale. Questa giornata non è un rituale vuoto, né una pagina da archiviare. È un testimone che passa di generazione in generazione, un monito a difendere ciò che è stato conquistato con il sacrificio. La sobrietà, dunque, non sia silenzio, ma dignità. E la memoria non sia nostalgia, ma responsabilità.