Le ultime restrizioni cinesi sull’esportazione di terre rare rende ancora più critica la situazione per gli Usa. Soprattutto per quanto riguarda il processo di raffinazione. “Nulla, al momento, fa presagire che le occorrenze geologiche in Ucraina possano giovare in questo sforzo” commenta Prina Cerai (Ispi)
Poche settimane fa, all’interno del più ampio contesto della “guerra dei dazi” scatenata dal presidente statunitense Donald Trump, il governo della Repubblica Popolare Cinese ha imposto dei limiti alle esportazioni su alcune delle cosiddette “terre rare”, un gruppo di diciassette elementi chimici che ricoprono un ruolo centrale nella produzione di beni ad alto livello tecnologico. Il provvedimento promosso da Pechino fa sì che le esportazioni di samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio siano condizionate all’emissione di un’apposita licenza governativa, per via di motivazioni di “sicurezza nazionale”. Questa limitazione alle esportazioni arriva a pochi mesi di distanza da un altro provvedimento di Pechino relativo alla limitazione dell’esportazione delle terre rare, che si concentrava su gallio, germanio e antimonio.
Seppur presente, non è quella economica ad essere la ratio principale dietro alle decisioni di Zhongnanhai; le motivazioni sono molto più legate alla dimensione strategica e a quella militare. Le terre rare sono infatti utilizzate in modo estensivo nella produzione dei più disparati sistemi di natura militare, e soprattutto in quei sistemi con un alto livello di sofisticazione tecnologica. Come quelli impiegati dall’esercito degli Stati Uniti, la cui caratterizzazione technology-intensive è divenuta sempre più marcata negli scorsi decenni.
Alcune cifre sono sufficienti per fotografare in più che chiaro la situazione: dal 2010, la domanda del Pentagono di componenti contenenti cinque elementi inclusi nella lista delle terre rare (antimonio, gallio, germanio, tungsteno e tellurio) ha subito un’impennata netta, con contratti che sono cresciuti in media del 23,2% all’anno (mentre quelli relativi al gallio hanno registrato una crescita record del 41,8% all’anno). Secondo un nuovo rapporto della società di analisi dei dati Govini, più di 80.000 parti distinte in 1.900 sistemi d’arma impiegati dalle forze armate Usa (ovvero circa il 78% di tutte le armi del Dipartimento della Difesa) dipendono da questi materiali. Tra le singole branche, la US Navy è la prima utilizzatrice di questi materiali, con oltre il 91% dei suoi sistemi che contengono almeno uno dei minerali.
In queste circostanze, non stupisce che l’attuale amministrazione statunitense stia puntando sulla firma dell’oramai noto “accordo sui minerali” con l’Ucraina, così da ridurre la propria dipendenza dalle importazioni cinesi rafforzando così supply chain dell’apparato militare-industriale statunitense. Tuttavia, la situazione potrebbe essere più complessa.
Per Washington il problema non sta tanto nell’estrazione e nell’approvvigionamento di terre rare, quanto invece nel processo di raffinazione, ovvero nella separazione dei singoli elementi dagli altri minerali. Un processo su cui la Repubblica Popolare detiene un marcato monopolio: l’Agenzia Internazionale dell’Energia stima che in Cina avvenga il 92% della raffinazione globale di terre rare (contro il 61% relativo all’estrazione delle stesse). Il New York Times fornisce cifre ancora più nette: “Fino al 2023, la Cina produceva il 99% dell’offerta mondiale di metalli rari pesanti, con una piccola produzione proveniente da una raffineria in Vietnam. Ma questa raffineria è stata chiusa nell’ultimo anno a causa di una disputa fiscale, lasciando alla Cina il monopolio”.
Senza l’accesso a queste risorse, la produzione di sistemi d’arma negli Stati Uniti potrebbe registrare fortissimi allentamenti, in un momento in cui il suo rivale al di là del Pacifico sta espandendo la produzione di munizioni e sta acquisendo sistemi di armamento ed equipaggiamenti avanzati a un ritmo cinque o sei volte superiore a quello di Washington. “Mentre la Cina si sta preparando con una mentalità da guerra, gli Stati Uniti continuano a operare in condizioni di tempo di pace. Anche prima delle ultime restrizioni, la base industriale della difesa statunitense si trovava a lottare con una capacità limitata e non era in grado di aumentare la produzione per soddisfare le richieste di tecnologia della difesa. Ulteriori divieti sugli input di minerali critici non faranno che aumentare il divario, consentendo alla Cina di rafforzare le proprie capacità militari più rapidamente degli Stati Uniti” è l’allarme lanciato dagli esperti del Center for Strategic and International Studies in un report pubblicato all’indomani dell’annuncio cinese sulle nuove restrizioni alle importazioni.
“Gli Stati Uniti hanno avviato una politica di reshoring delle terre rare (specialmente quelle “magnetiche”) a partire dall’amministrazione Trump I, con l’attivazione del Defense Production Act. La riapertura della miniera di Mountain Pass, in California, con il sostegno finanziario del Pentagono è stata il primo passo. Quello che manca ancora è un solido business case per le fasi di raffinazione e metallizzazione: step cruciali per la fabbricazione dei magneti permanenti di terre rare. L’impianto di Fort Worth in prossimità della miniera, gestita da MPpMaterials, avrebbe una capacità di circa l’1% della domanda mondiale”, commenta per Formiche.net Alberto Prina Cerai, Junior Research Fellow presso l’Osservatorio Geoeconomia dell’Ispi. “Per quelli utilizzati dall’industria militare, rimane essenziale l’aggiunta di ‘polveri’ di disprosio e terbio per potenziarne la performance: due elementi su cui la Cina ha il totale controllo. Proprio per presidiare queste fasi la Cina ha imposto controllo sull’export, sia per materiali che per tecnologie di processazione. L’unica via d’uscita per le esigenze relativamente modeste, in termini di tonnellaggio, dell’industria militare americana è il finanziamento prolungato di progetti per l’estrazione di ‘terre rare pesanti’ a fronte delle esigenze del mercato. Nulla, al momento, fa presagire che le occorrenze geologiche in Ucraina possano giovare in questo sforzo”.