Dal Neorealismo, passando per Federico Fellini, Andrej Tarkovskij e Akira Kurosawa, sino a Gabriel Axel, ecco il cinema d’autore amato dal papa. Con temi a lui cari: la famiglia, l’innocenza, l’infanzia, il perdono, la croce, la fede, l’arte. Una carrellata-review dello storico del cinema Eusebio Ciccotti
Mi sarebbe piaciuto chiedere a Papa Francesco, qualora lo avessi incontrato, se fosse mai stato a conoscenza della bella sceneggiatura di Guido Gozzano, poeta e scrittore conterraneo dei suoi genitori, dedicata al poverello di Assisi, dal titolo San Francesco di Assisi (1915). Uno script pronto per essere girato, con uno stile in anticipo sui tempi: ossia, con meticolose indicazioni di ripresa; gli esterni; gli interni; passaggi sintattici innovativi in anticipo sui tempi, quali l’introduzione della metafora cinematografica prima di David W. Griffith e Charlie Chaplin.
Per esempio, cosciente per Gozzano il desiderio di tradurre una inquadratura nella “carrellata” unita al “grand’angolo” («Prospettiva di lungo granai in fiamme»); come parimenti la “zoomata” («Il disco dell’ostia si fa sfavillante sino ad occupare tutto il primo piano come un sole dove si disegna la sigla sacra»). Per tacere della impeccabile consulenza (ci ricorda Mariarosa Masoero) del «dotto e prudente» francescano Corrado Giulio Aleyson. La sceneggiatura, terminata entro l’estate del 1915, doveva andare in lavorazione nella primavera del 1916, a cura della casa di produzione Gladiator Film di Torino di Ugo De Simone & C. Manifattura Cinematografica, e prevedeva quindici giorni di riprese.
Dalle inquadrature cine-letterarie di Gozzano emergeva quella umiltà che, sono sicuro, Papa Francesco, attento spettatore di cinema, avrebbe apprezzato. Lo stesso tratto dimesso ma dignitoso che questi portò dalle periferie di Buenos Aires a Roma, cento anni dopo, con azioni ormai “iconiche”, quali la proverbiale borsa di lavoro, non molto dissimile dal sacco sulle spalle del Poverello previsto dallo scenario del poeta piemontese delle «piccole cose».
Dell’amore di Francesco per il cinema ne hanno parlato, con competenza, studiosi di vaglia, quali il teologo e critico letterario, Antonio Spadaro S.I. (già direttore di La Civiltà Cattolica) e lo storico del cinema e accademico Edoardo Viganò. Sappiamo che il pontefice, sin da ragazzo ha «amato i film con Anna Magnani, visti quando avevo 12-13 anni. E poi il Neorealismo cinematografico di Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Federico Fellini, …». Ma anche film quali il cinema di Andrej Tarkovskij degli anni Sessanta [L’infanzia di Ivan, Andrei Rublëv] sino a film più contemporanei come Il pranzo di Babette (1987) di Gabriel Axel e Rapsodia in estate (1991) di Akira Kurosawa (credo che egli conoscesse, del «tenno» – «imperatore» – nipponico, anche La fortezza nascosta, un autentico saggio, a mio avviso, sulle tre virtù teologali rilette in contesto iamatologo).
I temi della pastorale di Francesco li potremmo rintracciare nella sua “filmografia” di spettatore: lotta alla povertà (Ladri di bicilette; Miracolo a Milano; La strada), la dura realtà delle periferie (L’onorevole Angelina, Miracolo a Milano; La strada, Mamma Roma), vita semplice di umili e dignitose famiglie (Roma città aperta, Bellissima, Mamma Roma, Il pranzo di Babette); amore per i ragazzi e i bambini (I bambini ci guardano; Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di bicilette; Rapsodia in agosto); l’innocenza della infanzia (Sciuscià, Ladri di biciclette, Bellissima, Rapsodia in agosto), delicatezza e solitudine dei nonni e degli anziani (Umberto D; Rapsodia in agosto), ricerca della fede tramite l’arte (Andrej Rublëv).
Quando lo vediamo accarezzare e baciare sulla testolina i piccoli bambini che le mamme gli “offrono” in piazza San Pietro (accadeva, va detto, anche con Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI) è come se lo vedessimo allungare una carezza consolatoria alla piccola Maria (è la splendida Tina Apicella) di Bellissima (1951, Luchino Visconti), dileggiata dalle sgangherate risate dei fabbricanti di sogni, durante la proiezione dei provini. Al contempo, Francesco, avrebbe accarezzato anche quella mamma offesa e derisa, dagli occhi svuotati d’ogni espressione (lapidario il volto terreo di Anna Magnani, annebbiato dagli sghignazzi della troupe).
Ce lo figuriamo osservare sconsolato, a Piazzale Flaminio, il padre e il figlio di Ladri di biciclette (1948, De Sica) che, offesi e violentati dalla povertà (il padre ha tentato il furto di una biciletta come reazione al furto a sua volta subìto), ora pubblicamente umiliati, e appena scampati a un quasi-linciaggio. Ancora, lo immaginiamo, Francesco, correre insieme ai quattro nipoti di nonna Kane (Rapsodia in agosto) nel tentativo di raggiungerla per salvarla da una inevitabile fine.
Potrebbe essere uno degli anziani baraccati mentre si scalda al tenue focherello, acceso in un bidoncino di lamiera, accanto ad una baracca di lamiera e cartone nella baraccopoli affogata nella nebbia di Miracolo a Milano (1951, Vittorio De Sica), colto mentre fa posto ad uno più povero di lui o, ancora, a un bambino orfano, intirizzito dal freddo.
Come vicino di casa Francesco avrebbe ascoltato, nel cortiletto o sulla piccola strada delle belle case popolari della neo-periferia romana del boom economico (Mamma Roma, 1962, Pier Paolo Pasolini), l’adolescente Ettore (il dinoccolato Ettore Garofolo, morirà a 51 anni), figlio della ex prostituta “Mamma Roma”, per tentar di capire il suo malessere esistenziale.
E quando dice che il film che lo ha più “formato” cinematograficamente è La strada (1954) ci sta rivelando come quel capolavoro di Federico Fellini sia un ‘compendio di Morale’. Abbiamo la povertà di una famiglia “costretta” a vendere una figlia, Gelsomina, per diecimila lire (è la insuperabile Giulietta Masina) al girovago circense Zampanò (un magistrale Anthony Quinn). Questi è un duro, un grezzo, un attaccabrighe: insomma un violento. Perché? Probabilmente non ha mai ricevuto amore da bambino. Fa da contraltare al collerico Zampanò la figura leggera, poetica, aerea, del Matto (perfetto nella parte, Richard Basehart), un personaggio-simbolo di: creatività, gioia, umorismo surreale, enzimi di cui si ha bisogno per sopravvivere, soprattutto nell’indigenza più nera.
Gelsomina potrebbe lasciare il truce Zampanò, in più di una occasione. Per esempio, la sera in cui egli finisce in prigione per rissa. O, soprattutto, quando le suore si offrono di tenerla in convento, nel paesino di montagna. Ma ella non ce la fa a lasciare quell’uomo violento, poiché, dopotutto, egli è solo, è un infelice, «ha bisogno di aiuto». Gelsomina sceglie di sacrificarsi per il bruto, abbraccia la croce (al momento del commiato dalle suore, nel cortile antistante il conventino, Fellini ha sistemato una gigante croce con su un Gesù davvero sofferente).
La scena in cui Gelsomina saluta dalla moto-furgone, guidata come sempre da Zampanò, le suore, è drammaticamente struggente. Le lacrime le sbottano improvvise, a goccioloni, irrefrenabili: lei abbassa la testa sotto il braccio poggiato sulla spondina del furgone, nascondendo il volto: alza l’altro braccino con il fazzoletto bianco, stropicciato, per salutare. In controcampo la suora accanto al gigante crocifisso, la saluta con lo guardo sconsolato: la moto-furgone, in carrello, si allontana sempre più, con il suo lancinante rauco ruggito del motore a due tempi. La scena ancora oggi ti scortica il cuore: una delle più riuscite di tutto il cinema felliniano.