La Cina ha testato armi termochimiche direzionali basate su idruro di magnesio, capaci di rilasciare idrogeno e generare effetti termici intensi e mirati senza impiegare materiali nucleari. Questi ordigni sfidano le tradizionali classificazioni militari, combinando potenza distruttiva, scalabilità e bassa visibilità politica e rappresentando una nuova frontiera tecnologica destinata a ridefinire la deterrenza. L’analisi del generale Pasquale Preziosa, docente di Geostrategia
La sperimentazione di ordigni a base di idruro di magnesio da parte della Cina, capaci di generare prolungate reazioni esotermiche attraverso la liberazione controllata di idrogeno, rappresenta una svolta nella dottrina degli armamenti convenzionali. Queste nuove armi, che non impiegano materiali fissili né generano radiazioni ionizzanti, possono essere classificate come armi termochimiche direzionali, e pongono interrogativi rilevanti circa l’evoluzione della deterrenza, la natura dei conflitti futuri e la ridefinizione del concetto stesso di “arma strategica”.
La linea di demarcazione tra armi convenzionali e strategiche è storicamente definita dalla presenza di energia nucleare e dalla capacità di infliggere distruzione su vasta scala (Dolan, 1977). Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie energetiche e chimiche, si assiste oggi all’emergere di una nuova categoria di sistemi d’arma che, pur restando formalmente “non nucleari”, possiedono capacità distruttive e di saturazione energetica potenzialmente paragonabili a quelle delle armi nucleari tattiche (Davis, 2019). Le armi termochimiche direzionali, in sperimentazione in Cina, ne costituiscono un esempio emblematico di questa tendenza. Il termine “arma termochimica” definisce un sistema che sfrutta una reazione chimica esotermica ad alto rendimento, innescata da stimoli meccanici o esplosivi, per produrre calore, pressione e propagazione energetica (Withe, 2004) . La tecnologia testata in Cina utilizza idruro di magnesio (MgH₂) come vettore solido di idrogeno, che, una volta decomposto termicamente, rilascia un gas altamente infiammabile in grado di attivare una combustione autosostenuta. Il concetto di “direzionalità” si riferisce alla possibilità di modulare geometricamente e dinamicamente la propagazione dell’energia termica ed esplosiva. Questo rappresenta un’evoluzione concettuale rispetto a ordigni incendiari tradizionali – come il napalm – caratterizzati da diffusione indiscriminata. In tale prospettiva, il termine “arma ad alta intensità” risulta riduttivo e impreciso, poiché non coglie la natura cinetico-processuale e controllabile di questi dispositivi. Sebbene l’ordigno cinese rappresenti un’innovazione tecnologica originale, non è privo di precedenti concettuali. Già nell’antichità, le armi incendiarie come il fuoco greco e le miscele bizantine sfruttavano reazioni chimiche (zolfo, pece, salnitro) per generare fiamme persistenti.
Nel XX secolo, il napalm e successivamente il fosforo bianco (Wp) furono impiegati come agenti incendiari a combustione prolungata, pur senza possibilità di controllo direzionale. Durante la Guerra fredda, alcuni progetti sperimentali statunitensi e sovietici esplorarono l’uso di esplosivi pseudonucleari, come dispositivi metallizzati o gasificati, allo scopo di massimizzare la resa termica senza ricorrere a materiali radioattivi. Tuttavia, nessuno di questi progetti raggiunse la maturità tecnica e l’efficienza operativa dimostrate nel recente esperimento cinese.
Più recentemente, negli anni 2000, la Darpa ha condotto studi su dispositivi a combustibile ad alta energia attivati da impulso esplosivo (explosively pumped high-energy fuel devices) e sulle armi termobariche. Sebbene condividano alcuni principi di rilascio energetico atmosferico, differiscono per scala, precisione direzionale e durata dell’effetto termico. L’originalità dell’arma testata in Cina risiede nella combinazione di stoccaggio solido dell’idrogeno (solid-state hydrogen storage), direzionalità modulabile dell’effetto termico, ciclo autosostenuto di decomposizione-combustione, scalabilità tattica in assenza di vincoli internazionali. L’ordigno da 2 kg ha prodotto una palla di fuoco di oltre 1.000°C, persistente per più di due secondi. La sovrappressione misurata (428 kPa a 2 metri) è inferiore a quella generata dal Tnt, ma la saturazione termica dell’ambiente è superiore, sufficiente a causare danni strutturali, fusione di leghe leggere e disattivazione di sistemi elettronici. Questo tipo di effetto lo rende particolarmente adatto a ambienti navali, dove può danneggiare rivestimenti e sensori, spazi chiusi o protetti (hangar, bunker, veicoli), contesti di guerra elettronica e cyber, dove la neutralizzazione termica mirata è preferibile alla distruzione cinetica.
L’introduzione di armi termochimiche direzionali impone un aggiornamento delle dottrine militari e delle normative di controllo degli armamenti. Queste armi, sfuggendo alla categorizzazione tradizionale (non nucleari, non proibite), possono essere integrate negli arsenali convenzionali con basso impatto politico, ma elevata efficacia strategica. Il rischio è che tali tecnologie contribuiscano alla banalizzazione della soglia strategica, facilitando un impiego più frequente e meno vincolato della forza distruttiva, in particolare nei teatri regionali ad alta intensità (per esempio Taiwan, mar cinese meridionale, Donbass). Pur affondando le radici in concetti antichi, le armi termochimiche direzionali costituiscono oggi una novità strutturale per composizione, impiego, flessibilità e potenziale trasformativo. Rappresentano una nuova generazione di armi convenzionali strategiche, destinate a influenzare gli equilibri globali e il pensiero militare del XXI secolo.