Il maxi-accordo siglato da Trump a Riad rafforza l’asse tra Stati Uniti e Arabia Saudita, con implicazioni che superano la dimensione economica. Al centro, interoperabilità, coproduzione e ambizioni industriali legate alla Vision 2030. In uno scenario regionale in trasformazione, l’intesa rilancia il protagonismo saudita e ricalibra gli equilibri tra Washington, Pechino e Tel Aviv
Durante la sua visita a Riad, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la firma di un accordo di forniture di difesa con l’Arabia Saudita dal valore di quasi 142 miliardi di dollari. “Il più grande accordo di difesa della storia”, così lo ha definito Trump durante il suo annuncio. Il pacchetto fa a sua volta parte di un più ampio impegno di investimenti bilaterali tra i due Paesi, per un totale di 600 miliardi di dollari. Tuttavia, le implicazioni di questo accordo vanno ben oltre i soli rapporti economici e chiamano in causa tutti i principali attori regionali, dalla Cina a Israele.
I dettagli della vendita
Al momento, l’amministrazione statunitense non ha fornito dettagli specifici sul contenuto dell’accordo. Tuttavia, si apprende dal comunicato stampa della Casa Bianca che l’intesa si articolerà su cinque aree strategiche: aeronautica e spazio, difesa aerea e missilistica, sicurezza marittima, modernizzazione delle forze terrestri e sicurezza delle frontiere, nonché l’aggiornamento dei sistemi informativi e di comunicazione. Il pacchetto prevede anche servizi di formazione per le Forze Armate saudite, con un focus sul potenziamento delle accademie militari e dei servizi medici militari. Nessuna conferma né smentita per quanto riguarda l’eventuale fornitura a Riad di caccia F-35, su cui l’Arabia Saudita ha messo gli occhi ormai da tempo.
Il rapporto strategico Arabia Saudita-Usa
L’Arabia Saudita è da tempo uno dei principali acquirenti di armamenti statunitensi. Nel 2017, durante il suo primo mandato, Trump aveva già firmato un accordo da 110 miliardi di dollari con il regno saudita. L’attuale intesa supera quella precedente, sia in termini economici che di portata strategica. Nel 2025, il bilancio della difesa saudita è stato aumentato a 78 miliardi di dollari, pari al 21% della spesa pubblica totale del Paese, il che ha portato l’Arabia Saudita a diventare il quinto investitore in difesa a livello mondiale secondo il Sipri di Stoccolma.
In questo contesto, Riad sta perseguendo una strategia di trasformazione del proprio apparato bellico, puntando non solo all’acquisto, ma anche all’industrializzazione locale. La Vision 2030, voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salman, include esplicitamente l’obiettivo di portare al 50% la produzione interna del fabbisogno militare saudita. Non è quindi secondario che nell’accordo con gli Usa si parli esplicitamente di “interoperabilità” e “coproduzione”. Un linguaggio che richiama non solo il trasferimento di sistemi, ma anche la possibilità di una filiera bilaterale per garantire una produzione sistemica indoor sul lungo periodo.
Uno smacco alla Cina?
Al di là del valore economico, è il tempismo dell’intesa a lasciare intendere che, con questa mossa, Trump abbia voluto mandare un chiaro messaggio alla Cina. L’accordo arriva infatti in un momento in cui Riad, che mantiene una posizione regionale di relativa equidistanza tra Washington e il Dragone, si vede corteggiata anche da Pechino.
Negli ultimi anni, Pechino ha intensificato i rapporti con l’Arabia Saudita anche nel comparto militare-industriale. Sempre secondo il Sipri, la Cina è diventata uno dei principali fornitori di sistemi d’arma per i Paesi del Golfo. Già nel 2017, il regno saudita aveva acquistato missili balistici Df-3 e Df-21 di produzione cinese. Più di recente, Pechino ha offerto sistemi avanzati di difesa aerea (come il Hq-17AE, versione export del sistema russo Tor-M1) e droni da combattimento come il Wing Loong II, già operativi in Yemen, Libia ed Etiopia. Ora, con il maxi-accordo sottoscritto con Washington, Pechino vede sfilarsi dalle mani (quantomeno su diversi dossier) un cliente facoltoso e tutt’altro che secondario nei macro-equilibri regionali.
A cosa punta Riad?
La nuova partnership con gli Stati Uniti si inserisce in una strategia regionale più ampia, che fa del consolidamento delle capacità militari saudite un elemento portante. Al netto delle tensioni residue con gli Houthi nello Yemen, oggi l’Arabia Saudita non percepisce minacce imminenti alla propria sovranità territoriale. Lo dimostrano, tra le altre cose, le aperture esplorative di Riad verso una possibile riattivazione dei negoziati sul dossier nucleare iraniano. Ma l’assenza di minacce dirette e immediate non significa disimpegno. Al contrario, il regno continua a investire con decisione nella modernizzazione del proprio apparato difensivo, con l’obiettivo di porsi (a breve) come un attore militarmente imprescindibile nella fitta ragnatela mediorientale. Ragnatela che Riad intende mantenere in ordine, pena il naufragio dei piani per la Vision 2030.
Tuttavia, non è detto che tutti nella regione accolgano con favore il rafforzamento militare saudita. A cominciare da Israele, per il quale qualsiasi ipotesi di riequilibrio strategico – soprattutto se accompagnata da trasferimenti tecnologici avanzati – viene letta con estrema cautela. Il vantaggio militare di Tel Aviv, pilastro implicito della sua deterrenza, rischia infatti di venire messo in discussione. E nel Medio Oriente delle linee rosse mutevoli, anche le alleanze più solide richiedono una continua manutenzione.