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Il cessate il fuoco a Tripoli non basta per risolvere la crisi libica

Tra proteste popolari e decisioni dell’ultimo minuto parte a Tripoli un cessate il fuoco fragile che non risolve la crisi libica. Milizie sul punto di saturazione, divisione est-ovest esacerbata, attori esterni pronti a far valere i propri interessi

La capitale libica, Tripoli, ha vissuto mercoledì una scena senza precedenti di rabbia popolare e frammentazione della sicurezza, in seguito all’uccisione di Abdel Ghani al-Kikli e agli scontri armati tra formazioni di sicurezza, tutte proclamatesi parte della “legittimità dello Stato”. Nel frattempo, la strada ha iniziato a esprimere chiaramente la perdita di fiducia nelle istituzioni statali, ritenendo il governo e il Consiglio Presidenziale responsabili del collasso in atto.

In questo contesto, si sono svolte proteste rabbiose in diverse zone della città, in particolare davanti alla sede di “Ghneiwa”, soprannome di al-Kikli, nel quartiere di Abu Salim, dove i manifestanti hanno chiesto il ritiro delle forze che vi si sono insediate dopo la sua morte. Simili manifestazioni si sono svolte nei quartieri di Souq al-Jumaa e Tajoura, chiedendo la caduta del Governo di Unità Nazionale, accusato di negligenza e complicità nello scoppio delle violenze. In Piazza dei Martiri si è svolta una grande manifestazione che ha accusato il governo di tradimento, sollevando slogan contro la sua permanenza al potere, ma è stata repressa con eccessivo uso della forza da parte del Dipartimento di Sicurezza Pubblica, che ha aperto il fuoco sui manifestanti, rievocando immagini della repressione che i libici avevano combattuto nel 2011.

Un cessate il fuoco senza garanzie

Sotto la pressione delle proteste popolari e degli scontri armati che hanno scosso la capitale, il Consiglio Presidenziale ha emesso la Decisione n. 2 del 2025 riguardante la “conferma del cessate il fuoco”, tentando così di imporre una calma immediata e prevenire un’escalation verso una guerra aperta. Il provvedimento, pubblicato il 14 maggio, include cinque articoli principali, tra cui l’annuncio del cessate il fuoco generale, il congelamento delle nomine nelle istituzioni di sicurezza e la formazione di un comitato presieduto dal Capo di Stato Maggiore per presentare una proposta entro due settimane.

Tuttavia, un’analisi attenta del contenuto della decisione rivela debolezze fondamentali. La decisione manca di meccanismi esecutivi chiari e garanzie concrete per fermare gli scontri, non essendovi menzione di forze neutrali per mantenere la tregua o di sanzioni contro i trasgressori. Pur menzionando una “ristrutturazione delle istituzioni di sicurezza”, non presenta alcun piano realistico su come farlo, né su quali organi supervisionerebbero il processo, rendendolo più una manovra mediatica che un atto istituzionale concreto. L’ignorare le richieste popolari, come il perseguimento di chi ha sparato sui manifestanti o una presa di posizione chiara contro certi comportamenti delle milizie, indebolisce ulteriormente la sua credibilità tra i cittadini.

La cosa più grave è che la decisione non è stata nemmeno attuata: sono continuate esplosioni e colpi d’arma da fuoco in vari quartieri di Tripoli anche dopo la sua pubblicazione, dimostrando la fragilità della misura e l’assenza di un’autorità centrale capace di farla rispettare.

Iniziative informali e intrecci politici

Nel caos istituzionale, sono emersi tentativi informali di mediazione tra Abdelraouf Kara (comandante della Forza Speciale di Deterrenza) e i suoi oppositori, che gli hanno chiesto di consegnare la base di Mitiga e la prigione al suo interno, dove si trovano detenuti affiliati a gruppi estremisti come Daesh e al-Qaeda, nonché criminali pericolosi. Secondo alcune fonti, Kara avrebbe posto le dimissioni del governo come condizione per accettare una soluzione negoziata, aprendo così la porta ad alternative extra-istituzionali.

La più rilevante tra queste è stata l’iniziativa dell’imprenditore e politico Abdelbaset Igtet, che ha proposto a Kara di trasferire il comando a Mostafa Qaddour, suo ex collaboratore, in cambio della richiesta al premier Abdulhamid Dabaiba di destituire i ministri della Difesa e dell’Interno, e di nominare due figure nazionali indipendenti per assicurare la stabilità fino alla fine del mandato del governo, che Igtet ha definito essere di “pochi mesi”.

Crisi di legittimità e fratture crescenti

Ciò che sta accadendo a Tripoli non è solo un conflitto tra forze di sicurezza, ma la manifestazione concreta di una crisi di legittimità del governo e del Consiglio Presidenziale, incapaci di imporre la propria sovranità o di mantenere la minima fiducia popolare. Quando le masse scendono in piazza chiedendo la caduta del governo e vengono accolte a colpi di arma da fuoco, non si tratta più di proteste sporadiche, bensì di un chiaro segnale del deteriorarsi del rapporto tra Stato e società.

In assenza di una chiara roadmap e di un processo politico credibile, le iniziative individuali e non ufficiali, come quella di Igtet, rischiano di diventare sostituti deformati dello Stato assente.

Il cessate il fuoco annunciato dal Consiglio Presidenziale è arrivato in ritardo, privo di garanzie e di capacità di attuazione, riflettendo la profondità della crisi che sta travolgendo Tripoli. Finché la tensione non verrà affrontata attraverso una soluzione politica globale, che includa la ristrutturazione delle istituzioni di sicurezza e il ripristino della legittimità attraverso un consenso nazionale autentico, la capitale rimane a rischio di ulteriori esplosioni di violenza, soprattutto con l’aumento della rabbia popolare e il tempo che stringe per l’attuale governo.

La Libia non ha bisogno solo di un “cessate il fuoco”, ma di una riconciliazione nazionale integrale che ponga fine al caos armato, restituisca significato alle istituzioni e riporti la fiducia della strada nello Stato.


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