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Mattarella, Draghi e quell’atto di coraggio che è mancato all’Europa. L’analisi di Polillo

Si è soliti dire che la crisi è anche un’opportunità. Se questo fosse vero, ci vorrebbe quell’atto di coraggio che finora è mancato. Che va riproposto con la consapevolezza di essere nel giusto. L’analisi di Gianfranco Polillo

Da un lato ci sono coloro che, l’8 ed il 9 giugno, proponendo cinque referendum fuori dal tempo, vorrebbero portare indietro le lancette della storia, ma dall’altro chi, in una piccola città del Portogallo, si misura con le incerte prospettive del nostro futuro più immediato. Lo hanno fatto sia Mario Draghi che Sergio Mattarella, intervenendo a Coimbra – la città conosciuta per l’eccellenza della sua Università – al convegno organizzato da Cotec: una fondazione privata senza scopo di lucro, che da sempre si occupa di ricerca ed innovazione. Alla presenza di ospiti d’eccezione, come il Presidente della Repubblica Portoghese Marcelo Rebelo de Sousa e il Re di Spagna Felipe VI. Lo hanno fatto riproponendo il celebre passo della Turandot di Giacomo Puccini: “Nessun dorma”. Che l’Europa e l’Italia insieme si sveglino per affrontare le incognite di una situazione internazionale che, a sua volta, non solo non è più quella di 10 anni fa. Quando furono varate quelle norme che si vorrebbero cassare. Ma nemmeno quella dell’altro ieri.

“Un’Europa rinnovata, più competitiva, più resiliente, più presente nello scacchiere internazionale – questo l’auspico del Presidente Mattarella – È una sfida epocale per il nostro continente, tanto più urgente se raffrontata a recenti evoluzioni negli equilibri mondiali”. Quindi, “l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione”. Non si ripeta l’immobilismo degli anni passati. Di difesa comune “gli Stati membri ne discutono da oltre settant’anni. Da quando a Parigi, nel maggio del 1952 venne firmato il Trattato che istituiva la Comunità europea di Difesa. Questa esigenza veniva rilanciata, in forme diverse e meno ambiziose, tra il 1998 e il 2000. Non è difficile immaginare quale sarebbe oggi la condizione dell’Unione, di fronte al mutato contesto geopolitico, se avessimo scelto a suo tempo di compiere quel salto di qualità politico nel processo di integrazione. Oggi siamo in ritardo, in rincorsa rispetto agli eventi e dobbiamo, di conseguenza, avvertirne l’urgenza”.

“Che fare?”: allora. La risposta è semplice nella sua declinazione: “È necessario rafforzare la capacità europea di crescere, di generare opportunità e benefici economici, creando le condizioni affinché ciascun cittadino possa accedervi secondo equità. Questo vuol dire lavorare, con unità d’intenti tra Stati Membri, per migliorare quelli che sono i nostri punti di forza, a cominciare dal Mercato Unico Europeo”. Dove comunque “sussistono sostanziali margini migliorativi”. In sintonia, si potrebbe chiosare, con gli ultimi interventi di papa Leone XIV, al centro di ogni riflessione deve essere la consapevolezza di quella che sarà la “nuova rivoluzione industriale del Terzo millennio”. Quelle “rerum novarum” si chiamano oggi: “robotica avanzata, (…) intelligenza artificiale generativa, (…) computer quantistici, (…) sperimentazioni per la produzione di energia pulita, (…) biotecnologie all’aerospazio.” Il cui sviluppo richiede, da un lato, la disponibilità di risorse adeguate, dall’altro “accordi con partner affidabili per assicurare forniture stabili”. Ed ecco allora la nuova regola per cui “competitività e sicurezza – concetto quest’ultimo che assume oggi numerose dimensioni, dalla sicurezza economica alla sicurezza energetica, da quella cibernetica a quella più tradizionale – sono (…) intimamente connesse”.

Sul tema della crescita, Mario Draghi, ch’era intervenuto in precedenza, non aveva concesso alcunché alla vecchia politica europea. “Dovremmo chiederci – aveva affermato – perché siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per trainare la nostra crescita”. Tradotto in un accenno meno ermetico: perché dopo la Global Financial Crisis, l’austerity indotta dalle regole del “Patto di stabilità e crescita” ha trasformato l’Eurozona – ma soprattutto la Germania e l’Olanda – nei più forti Paesi esportatori, con un saldo positivo delle loro partite correnti della bilancia dei pagamenti, superiore alla stessa Cina: hub industriale del Pianeta. Nel 2023, secondo i dati dell’Fmi, il saldo patrimoniale netto dei due Paesi nei confronti dell’estero aveva raggiunto un valore pari a 3.899 miliardi di dollari. Contro un deficit americano di 19.893 miliardi. Risorse sottratte allo sviluppo interno della Ue, dirottate verso l’estero, soprattutto gli Stati Uniti. Considerate da Donald Trump una sorta di attentato all’economia del proprio Paese per i suoi riflessi negativi sugli equilibri commerciali.

Piangere sul latte versato, ora, è del tutto inutile. “Dovremmo” invece “chiederci come possiamo crescere e generare ricchezza da soli”. C’è scetticismo nei confronti dell’America di Trump. Sebbene sia indispensabile conservare un “accesso” al mercato americano, non ci si deve illudere: i rapporti con Washington non torneranno più come prima. Né è pensabile ritenere che l’apertura di nuovi mercati possa compensare nel tempo la perdita subita. Per cui l’a Ue dovrà produrre “da sé” la crescita necessaria. Ma per farlo dovrà cambiare “il quadro delle politiche macroeconomiche” che l’hanno governata “dal 2008 in poi”. Prima di allora, “l’Ue aveva avuto una posizione delle partite correnti sostanzialmente equilibrata e una domanda interna adeguata”. Poi la stretta delle politiche fiscali aveva cambiato i paradigmi della politica economica, facendo della domanda estera la leva principale del possibile sviluppo produttivo. Con “uno sforzo deliberato per reprimere la crescita dei salari, in modo da aumentare la competitività esterna”.

Un cambiamento così radicale è fin troppo evidente nel confronto tra le due rive dell’Atlantico. Prima di quella data, Stati Uniti ed Europa marciavano di concerto. Più o meno identico il ritmo di crescita dell’economia, così come l’andamento dei salari. Che, invece, dopo la svolta hanno subito entrambi una torsione rilevante. E da allora lo scarto in termini di benessere individuale e collettivo è divenuto sempre più consistente. La compressione della domanda interna, per favorire le esportazioni, ha avuto un effetto negativo anche sull’organizzazione del Mercato Unico, le cui barriere interne non sono diminuite con lo stesso ritmo di quelle esterne. Di conseguenza il rendimento degli investimenti non ha retto il confronto con quello delle altre aree economiche, spingendo il capitale “fuori dall’Ue alla ricerca di opportunità. Dal 2015 al 2022 le grandi società quotate europee hanno avuto un tasso di rendimento sul capitale investito di circa 4 punti percentuali inferiore rispetto alle loro omologhe statunitensi”.

Oggi queste parole appaiono meno eretiche rispetto al passato. Gli sviluppi della situazione geopolitica hanno rotto l’incantesimo degli anni precedenti. Paesi che hanno margini fiscali adeguati stanno già cambiando le loro politiche, riproponendo una sorta di New Deal rooseveltiano. Elementi necessari, ma non sufficienti. I Paesi caratterizzati da un più alto debito pubblico non hanno i margini sufficienti per sviluppare quelle politiche. C’è quindi il rischio di un’accentuazione delle divergenze, che già caratterizzano la situazione dell’Unione. Alla quale è tuttavia possibile far fronte con “l’emissione di debito comune”. Per far sì che “la spesa aggregata non risulti insufficiente”. Garantendo “soprattutto per la difesa, che maggiori spese” abbiano “luogo in Europa” e che contribuiscano “all’efficacia operativa e a una crescita economica più elevata di quanto avverrebbe altrimenti”. Senza contare poi gli effetti indotti sul piano finanziario. “L’emissione di debito comune fornirebbe l’’anello mancante’ nei frammentati mercati dei capitali europei, ovvero l’assenza di un safe asset comune” che, invece, rappresenterebbe l’elemento fondamentale per “rendere i mercati dei capitali più profondi e liquidi, creando un circolo virtuoso tra tassi di rendimento più elevati e maggiori opportunità di finanziamento”.

La razionalità del disegno, appena enunciato, è di tutta evidenza. Sorprende solo che fino ad oggi esso sia rimasto chiuso in un cassetto, sepolto dalle paure ancestrali dei potenti del Continente e dalle loro piccole convenienze mercantilistiche. Si è soliti dire che la crisi è anche un’opportunità. Se questo fosse vero, ci vorrebbe quell’atto di coraggio che finora è mancato. Che va riproposto con la consapevolezza di essere nel giusto.


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