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Tregua o transizione. Analisi dell’accordo Usa-Cina, tra problemi strutturali e prospettive

La tregua commerciale tra Stati Uniti e Cina, discussa al Festival “Noi – Napoli Osservatorio Internazionale”, è solo una pausa in uno scontro sistemico più profondo. Enrico Fardella analizza gli squilibri strutturali della Cina, Noemi Lanna evidenzia la vulnerabilità del Giappone e Pietro Masina legge la crisi come parte di un passaggio egemonico globale

L’intesa tra Stati Uniti e Cina siglata a Ginevra rappresenta un importante momento di de-escalation, ma non risolve le dinamiche strutturali che alimentano gli squilibri economici e politici del sistema internazionale. Questo è il filo rosso che unisce le riflessioni di tre studiosi, protagonisti anche del Festival di Politica Internazionale “Noi – Napoli Osservatorio Internazionale”, organizzato dall’Università di Napoli L’Orientale. I professori Noemi Lanna, Enrico Fardella e Pietro Masina, docenti dell’università napoletana di fama internazionale, offrono su “Indo-Pacific Salad” tre prospettive complementari su quanto accaduto a Ginevra, andando oltre la superficie del negoziato e interrogandosi su ciò che rivela – e ciò che non riesce a sanare – nell’ordine globale in transizione.

Fardella: “Il problema non è la guerra commerciale, ma il modello economico cinese”

“La radice degli squilibri globali non sta nella guerra commerciale in sé, ma nelle dinamiche interne all’economia cinese”, spiega Enrico Fardella, docente di Storia e istituzioni dell’Asia ed esperto di economia politica internazionale. Pechino, analizza, continua a produrre più di quanto consumi o investa, e questo la spinge inevitabilmente a esportare in eccesso. Anche se l’accordo di Ginevra prevede la riduzione di alcuni dazi e la rimozione di barriere non tariffarie, si tratta di misure insufficienti a riequilibrare un sistema che resta asimmetrico alla radice. Il vero nodo, ha spiegato Fardella, è la debolezza della domanda interna cinese, che non permette un riequilibrio spontaneo del commercio. “Anche se i consumi interni possono aumentare temporaneamente, non c’è un cambiamento strutturale nel modello di crescita”.

Nel frattempo, gli Stati Uniti continuano a svolgere il ruolo di assorbitore di capitali globali grazie alla forza del dollaro e all’attrattività dei propri mercati finanziari. Questo significa che, anche con una riduzione del deficit commerciale bilaterale con la Cina, il disavanzo complessivo americano continuerà a persistere. “Il problema – ha sintetizzato Fardella – non scompare: semplicemente si sposta altrove”. In questo quadro, l’Europa rischia di diventare l’ammortizzatore del sistema, assorbendo l’eccesso di esportazioni cinesi senza disporre di un reale potere negoziale. “L’Europa rischia di essere il soggetto passivo di queste dinamiche: non guida i processi, ma ne subisce gli effetti. A Bruxelles si discute da tempo dell’idea di un’Europa autonoma e influente nello scenario globale, capace di bilanciare le due superpotenze. Tuttavia, senza una reale integrazione politica, fiscale e industriale, questa ambizione rischia di rimanere retorica e priva di efficacia concreta”.

Lanna: “Il Giappone è esposto e sta cercando di negoziare, ma anche di reagire”

Per il ruolo politico internazionale e per la dimensione economica generale, Tokyo è uno degli attori più direttamente interessati alle dinamiche Usa-Cina. “Il Giappone ha un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni, circa il 26% del PIL, e questo lo rende particolarmente vulnerabile alle misure protezionistiche adottate dagli Stati Uniti”, spiega Noemi Lanna, docente di Storia dell’Asia Orientale e Sud-orientale. A questa dipendenza si somma un altro elemento critico: l’apprezzamento dello yen, che penalizza ulteriormente la competitività dei prodotti giapponesi. Le conseguenze delle politiche tariffarie americane, secondo Lanna, colpiscono non solo gli scambi bilaterali, ma l’intero assetto delle catene globali del valore, e in particolare settori strategici come quello automobilistico.

Tokyo ha tentato di rispondere sia sul piano diplomatico che su quello industriale. Il rinvio della chiusura dei negoziati con Washington deciso da Ishiba Shigeru, spostato strategicamente a ridosso della campagna elettorale per la Camera Alta, mira a trasformare i risultati del dialogo con Trump in un vantaggio politico. Nel frattempo, molte imprese – come Morinaga, Seiko o Hitachi – hanno già cominciato a rilocalizzare parte della produzione, mentre sul piano regionale si torna a discutere di cooperazione trilaterale con Cina e Corea del Sud. “Esistono precedenti – ricorda Lanna – come il formato ‘ASEAN+3’ o il vertice di Fukuoka del 2008, ma resta da vedere se questa convergenza, oggi ancora fragile, potrà reggere come risposta di lungo periodo alla pressione statunitense”.

Masina: “Siamo nel mezzo di un passaggio egemonico. E forse anche in una guerra”

Pietro Masina, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia, colloca la crisi commerciale in una cornice storica più ampia, leggendo l’accordo di Ginevra come un semplice intermezzo tattico. “Si tratta di una tregua armata, ma entrambi i paesi sanno di dover trovare un’uscita da un confronto che danneggia tutti”. La vera posta in gioco, secondo Masina, è il passaggio di testimone tra due potenze globali: da un lato gli Stati Uniti, ancora dominanti in alcuni settori tecnologici ma sempre più sbilanciati verso la finanza e meno centrati sulla produzione reale; dall’altro la Cina, la cui ascesa non è più fondata solo sull’export tradizionale, ma su una crescente competitività tecnologica e industriale.

A meno di un’improbabile crisi interna del sistema politico cinese, nulla sembra poter arrestare questo processo. Eppure, avverte Masina, la storia ci insegna che i momenti di transizione egemonica sono raramente pacifici. “Il rischio non è solo teorico. Forse siamo già dentro un nuovo tipo di conflitto: una ‘Terza Guerra Mondiale a pezzi’, come ha detto Papa Francesco, in cui le tensioni economiche e commerciali sono solo una delle manifestazioni visibili”.


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