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Libia, la destabilizzazione a Tripoli rischia di bloccare il petrolio

La Libia affronta una nuova fase di instabilità politica e militare, con il rischio concreto di un blocco petrolifero da parte di Haftar. Questo scenario, sottovalutato dai mercati, potrebbe avere gravi conseguenze economiche per l’Italia e l’Europa. In un contesto globale già fragile, la crisi libica minaccia di innescare una tempesta perfetta nei mercati energetici

La recente instabilità a Tripoli ha riportato al centro dell’attenzione le fragilità strutturali della Libia e il rischio concreto che il Paese precipiti in una nuova fase di paralisi istituzionale. Anche se nel breve termine la violenza urbana dovesse temporaneamente attenuarsi, con la pausa delle armi raggiunta dopo gli scontri tra miliziani dei giorni scorsi, la Libia rimane ben lontana da qualunque forma di equilibrio. Piuttosto, ogni possibile scenario di evoluzione politica conduce, in realtà, a ulteriori incertezze.

Se il primo ministro Abdulhamid Dabaiba dovesse restare in carica (“se” legato alle ampie proteste popolari che hanno seguito gli ultimi regolamenti di conti tra i gruppi armati che lo circondano), lo farebbe in una posizione fortemente indebolita, generando un ulteriore vuoto di potere istituzionale — che lascia appunto spazio a quegli scontri intermittenti tra milizie rivali. Se invece fosse sostituito da un candidato ostile a Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica (da sempre oppositore dei governi onusiani come quello di Dabaiba) potrebbe reagire cercando di paralizzare il Paese. Al contrario, l’ascesa di un premier gradito ad Haftar provocherebbe forti resistenze a Tripoli e in tutta la Libia occidentale — dove il potere è gestito da clan profondamente ostili (in alcuni casi anche ideologicamente) alla famiglia Haftar.

Il fattore determinante sarà la pressione esercitata dagli attori internazionali. Sarà fondamentale capire se la Turchia riuscirà a convincere Dabaiba a moderare la repressione politica e a considerare un passo indietro, qualora il contesto lo richiedesse, e se gli Stati Uniti sapranno agire con prontezza per dissuadere Haftar da misure unilaterali come il blocco delle esportazioni petrolifere — su cui altri attori esterni potrebbero muovere i loro interessi.

Perché conta il petrolio 

Il petrolio è una delle chiavi, se non la principale, con l’instabilità che non tocca solo i pozzi ma anche le istituzioni che gestiscono i proventi, unicità di questa fase come evidenziava Arturo Varvelli (Ecfr). La Libia, con le sue immense riserve, è storicamente uno dei principali produttori ed esportatori di greggio in Africa e nel Mediterraneo. Tuttavia, oggi la produzione nazionale è fortemente ridotta, oscillando tra i 300.000 e i 600.000 barili al giorno, ben lontana dai livelli pre-crisi di 1,2-1,4 milioni di barili. La contrazione è dovuta principalmente ai conflitti interni, ai blocchi dei terminal (che spesso producono forme di rallentamento tecnico che si trascinano nel tempo) e in definitiva all’instabilità politica.

Il blocco delle esportazioni libiche: cosa significa per i mercati?

Un blocco totale delle esportazioni avrebbe un impatto immediato e significativo. La perdita di quasi l’1% dell’offerta mondiale porterebbe a un aumento rapido dei prezzi, come già visto in passato, con rialzi anche superiori al 3% in poche ore. È già successo nel 2024, quando Haftar per fermare le produzioni e i pozzi mosse truppe e influenze (le guardie di sicurezza degli impianti, una milizia a sé stante, sono da tempo in una fase di allineamento con il family office haftariano). Per Paesi come l’Italia, che dipende per il 15% dal greggio libico, le conseguenze sarebbero pesanti: servirebbero fornitori alternativi (potenzialmente più costosi) e meno compatibili con le infrastrutture di raffinazione esistenti.

Maggio 2025: un mercato in equilibrio precario

Dopo un picco di circa 82 dollari al barile all’inizio dell’anno, il Brent si è stabilizzato tra i 62 e i 66 dollari, in un contesto segnato da un aumento dell’offerta Opec+ e timori per un rallentamento dell’economia globale. Tuttavia, la volatilità resta alta. Ogni nuova crisi geopolitica – come il blocco libico – potrebbe invertire la tendenza.

Una caduta ulteriore della produzione, già ridotta a un terzo rispetto al passato, comporterebbe prezzi che potrebbero risalire verso i 70 dollari al barile. Si innescherebbe una crisi degli approvvigionamenti per l’Europa, con difficoltà a sostituire il petrolio leggero libico e conseguente aumento dei costi di raffinazione. Ma si assisterebbe anche a un collasso economico interno, dato che il petrolio rappresenta il 97% delle entrate statali, con possibili scenari di default e crisi sociale.

Da qui, si avrebbe un aggravamento dello scontro politico tra Tripoli e Haftar, con rischio di escalation militare e interferenze esterne. Un’escalation di proteste tribali e locali, a quel punto minerebbe ulteriormente la capacità produttiva, ma soprattutto la tenuta dell’intero sistema libico.

Una minaccia sottovalutata

Il rischio che Haftar imponga un blocco petrolifero preventivo — cioè non come risposta a un fatto compiuto, ma come deterrente per condizionare il processo politico attuale — è oggi seriamente sottovalutato dai mercati, spiega una fonte che si occupa di analizzare il geopolitical risk per strutture finanziarie: “In passato, reazioni del genere sono avvenute a posteriori. Oggi, Haftar potrebbe agire al primo segnale che la transizione in corso esclude i suoi interessi”.

Il blocco petrolifero libico rappresenta dunque una minaccia concreta e immediata per la stabilità energetica globale, inserendosi in un momento già segnato da incertezze economiche e geopolitiche. È qui che la crisi libica potrebbe innescare una spirale di rialzi dei prezzi, difficoltà per i Paesi importatori e ulteriore destabilizzazione interna. Cui prodest? Ci sono certamente attori produttori che non solo assorbirebbero meglio gli effetti, ma ne trarrebbero beneficio. Tra questi, mentre il Golfo è una generale fase di rimodellamento dell’azione politica internazionale nella direzione della stabilità, la Russia rema in direzione opposta.

Per Mosca, secondo produttore per quantità ed esportatore nonostante le sanIoni che hanno seguito l’invasione su larga scala dell’Ucraina, un aumento generale dei prezzi del greggio è positivo — permettendo un aumento dei guadagni. Non è un caso se Vladimir Putin ha posizionato — sin dal 2017 formalmente — forze regolari o meno alle spalle di Haftar, creando un hub logistico e funzionale nella Cirenaica in grado creare pressioni innanzitutto sull’Europa.


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