Maurizio Landini alla fine raccoglie ciò che aveva seminato. La frattura nel mondo sindacale rimane profonda e non potrà non ripercuotersi sul successo dell’iniziativa. Si vedrà all’indomani del 9 giugno, una volta chiusi i seggi elettorali. Fin da ora, tuttavia, è impossibile non vedere quale sia la reale posta in gioco. Gianfranco Polillo spiega quale
Cinque referendum: quattro voluti da Maurizio Landini, uno dai radicali, per dimostrare la loro esistenza in vita. Animatore e vero mattatore: il segretario della Cgil, deciso a rovesciare un’antica tradizione. Nel 1984 il referendum contro il decreto legge di San Valentino, che aveva limitato l’anno precedente gli scatti di contingenza, era stato voluto da Enrico Berlinguer, soprattutto in opposizione agli odiati socialisti. La Cgil, allora diretta da Luciano Lama era stata costretta a chinare la testa. Gli altri sindacati, fermamente contrari.
Con Landini, invece, il quadro è cambiato radicalmente. Questa volta è il segretario della Cgil che impone al resto della sinistra un terreno di scontro più che sdrucciolevole. Dove le speranze di vincere, come nel 1985, sono forse addirittura minori. Elly Schlein, un po’ per convinzione un po’ per opportunità, era stata costretta a seguire, pur cercando di prendere in mano la campagna di mobilitazione. In un contesto tutt’altro che semplice, per la complessa dislocazione delle diverse forze in campo. Che non lasciano presagire facili percorsi.
I militanti del Pd, secondo le indicazioni della Segretaria, dovrebbe votare cinque Sì. La pattuglia dei riformisti, ormai ridotta nel Partito ai minimi termini, voterà invece SI solo in alcuni casi: sulla cittadinanza e sulla responsabilità delle imprese appaltatrici. Negli altri casi non ritirerà le schede di voto, astenendosi. È prevedibile, tuttavia, che quel poco di base riformista, che ancora resiste, non si recherà nemmeno alle urne. Azione di Carlo Calenda andrà invece in cabina elettorale per votare quattro No ed un solo Sì per la cittadinanza. E, sul fronte opposto, farà lo stesso Noi moderati con una sola differenza per quanto riguarda il quesito sulla cittadinanza.
Anche in questo caso il voto sarà negativo. Per Matteo Renzi, invece, il No riguarderà tutti i quesiti relativi al Jobs Act. Il Sì sarà invece per la cittadinanza e la responsabilità delle imprese appaltatrici. Stessa scelta da parte di più Europa. I cinque stelle, a loro volta, voteranno SI ai quesiti relativi al mercato del lavoro. Mentre per la cittadinanza è prevista libertà di coscienza. La sinistra-sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli voterà invece Sì in tutti i casi.
Meno frastagliata la linea della maggioranza di governo, con la sola esclusione di “Noi moderati”, di cui si è già detto. Inviteranno all’astensione. Parola d’ordine più volte contestata dall’opposizione con argomentazioni, per la verità, piuttosto labili. Il voto referendario è completamente diverso da quello politico. In questo secondo caso vero e proprio valore civico.
L’onere dei promotori di un qualsiasi referendum deve essere infatti maggiore: non solo proporlo nelle materie previste dall’ordinamento, tant’è che esiste il doppio vaglio della Corte costituzionale e della Corte di cassazione. Ma essere tale da suscitare l’interesse degli elettori. I quali possono legittimamente rifiutarsi di partecipare ad un rito senza costrutto, qualora il quesito riguardi argomenti ritenuti inessenziali o addirittura, come in questo caso, addirittura dannosi. Del resto la situazione mantiene forti elementi di ambiguità. Landini, come si è visto, è riuscito ad unificare la sinistra italiana su una linea passatista. Le norme sul Jobs Act risalgono a dieci anni fa.
Furono codificate nella legge delega 183 del 2014. Da allora il mondo del lavoro è andato avanti, insieme agli sviluppi positivi della situazione italiana. Dieci anni fa, infatti, il tasso di attività della popolazione italiana (età compresa tra i 15 e i 24 anni), secondo Eurostat, era pari al 55,3% del totale: 17,5 punti meno della Germania e 9,2 dalla Francia. Lo scorso anno quelle differenze si sono ridotte (-15,2 con la Germania, -6,8 con la Francia). La crescita dell’occupazione, negli ultimi 10 anni è stata infatti maggiore: +12% in Italia, contro il 6% della Germania e il 7% della Francia. C’è ovviamente ancora molto da fare, ma tornare indietro sarebbe una follia.
Basterebbero questi elementi per dimostrare come la maggiore flessibilità del mercato del lavoro abbia prodotto risultati positivi. Altro che solo aumento della precarietà e della destrutturazione. Sempre 10 anni fa, dopo un lungo travaglio, segnato da un deficit permanente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, la posizione patrimoniale netta dell’Italia era debitoria nei confronti dell’estero per un valore pari al 25,2% del Pil. Oggi quella situazione è completamente rovesciata. I crediti vantati nei confronti dell’estero ammontano al 15,3% del Pil. Con una balzo positivo di oltre 40 punti di Pil. La scommessa di allora, modernizzare il sistema delle tutele per rendere più resiliente l’intera economia, si è dimostrata vincente. Anche se i frutti del relativo progresso non sono stati distribuiti con equità. Ma il sindacato non ha alcuna colpa?
Errare è umano, ma perseverare può essere diabolico. Ed è questo l’aspetto meno convincente della manovra di Landini. Che contribuisce a spiegare anche il suo relativo isolamento. Né più né meno come avvenne, nel 1984 con il decreto sulla scala mobile. Quando ad opporsi, contro tutti, fu solo la componente comunista della Cgil. In quest’ultimo caso, infatti, l’Uil aveva già deciso di non partecipare “alla raccolta delle firme” né di “far parte dei Comitati” promotori del referendum. Limitandosi al blando invito ai propri iscritti di recarsi alle urne. Per votare come meglio crederanno, salvo scrivere un NO sui quesiti relativi al Jobs Act.
Ancora più netta la posizione della Cisl, che per bocca della sua segretaria Daniela Fumarola ha ribadito che la confederazione da lei diretta “non sostiene né il Sì né il No e non invita a disertare le urne. La scelta è quella di non schierarsi formalmente, ritenendo che i quesiti referendari, pur toccando temi rilevanti, non offrano soluzioni efficaci ai problemi strutturali del lavoro in Italia.” Mentre per la Ugl quella “contrapposizione ideologica” che è sottesa all’iniziativa referendaria “si è ormai rivelata controproducente e fallimentare”. Occorrerà, pertanto, “rafforzare il dialogo costruttivo tra governo e parti sociali verso un patto di responsabilità che persegua il reale interesse dei lavoratori e del Paese.” Insomma: pollice verso, com’era del resto facilmente prevedibile fin dall’inizio. Troppo scoperto l’obiettivo politico dell’iniziativa per poter estendere la platea dei soggetti da coinvolgere.
Landini, quindi, alla fine raccoglie ciò che aveva seminato. La frattura nel mondo sindacale rimane profonda e non potrà non ripercuotersi sul successo dell’iniziativa. Si vedrà all’indomani del 9 giugno, una volta chiusi i seggi elettorali. Fin da ora, tuttavia, è impossibile non vedere quale sia la reale posta in gioco. Da un lato una sorta di rivincita postuma sul referendum del 1984, dall’altra il possibile successivo approdo di un leader sindacale verso un impegno politico più diretto. Se infatti le cose andranno, come è probabile che vadano, le conseguenze, come avvenne quarant’anni fa, saranno inevitabili. Più o meno buone, a seconda dei punti di vista. Ma comunque del tutto estranee al presunto dato del contendere.