L’intervista con Anita McBride, ex capo dello staff della First Lady Laura Bush, ci accompagna in un viaggio tra storia, diplomazia e comunicazione, raccontando l’evoluzione del ruolo delle First Ladies americane, da icone del cerimoniale a vere protagoniste del soft power statunitense
Nel corso della loro oramai secolare storia, ogni singolo Presidente degli Stati Uniti ha contribuito a forgiare la grandezza del Paese continentale che è arrivato ad affermarsi come prima superpotenza mondiale. Ma accanto ai Presidenti c’è sempre stata una figura tutt’altro che secondaria, ovvero quello delle First Ladies, che hanno contribuito non solo a rafforzare la coesione interna e il rapporto tra vertice del potere e Popolo, ma anche a rappresentare l’immagine degli Usa all’estero. E proprio del ruolo giocato da queste donne si è parlato all’evento organizzato dall’Ufficio del Presidente Usa e dal Guarini Institute for Public Affairs della John Cabot University svoltosi martedì 3 giugno a Roma, quando è stato presentato il libro “U.S. First Ladies: Making History and Leaving Legacies” dalla stessa autrice Anita McBride, già assistente del Presidente George W. Bush e capo di staff della First Lady Laura Bush, e attualmente executive-in-residence presso la American University School of Public Affairs dove dirige la First Ladies Initiative, la quale ha dialogato con Stewart McLaurin, presidente della White House Historical Association, proprio sul ruolo delle First Ladies. Al termine dell’evento, McBride ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande di Formiche.net per approfondire sia il tema trattato da lei stessa poco prima che alcuni aspetti più ampi della politica Usa.
Possiamo considerare nel quello avuto dalle First Ladies nel corso della storia di una sorta di soft power?
Certamente. Attraverso tutta la nostra storia gli esempi di soft power di queste donne che hanno sostenuto il Paese e il presidente non possono essere sottovalutati. Dalla nostra prima First Lady alla nostra attuale First Lady, compreso il ruolo diplomatico di padrona di casa alla Casa Bianca e di accoglienza, in particolare dei leader stranieri. Tutto questo fa parte della responsabilità di come trattiamo gli altri Paesi e di come veniamo trattati noi stessi. Il soft power è davvero importante. È una cosa altra, ma complementare all’hard power del Presidente. Ad esempio, il Presidente ha la responsabilità di garantire la sicurezza del Paese, e ciò significa supervisionare l’apparato militare. Ma le First Ladies, che sono le mogli del comandante in capo, si prendono cura dei veterani e dei militari. E questo è un esempio perfetto di soft power “complementare” al ruolo del presidente. Ma ce ne sono tanti altri.
L’amministrazione Trump è composta, nei ruoli apicali, da un numero di donne relativamente alto rispetto al passato. Crede che sia un fenomeno contingenziale o sia invece segno di un cambio di passo?
Penso si tratti della seconda opzione. Credo che ci sia stato un miglioramento della condizione femminile attraverso le leggi, ma anche grazie al ruolo assunto nel corso degli anni delle donne sul posto di lavoro, nei media, nel governo. Voglio dire, gli Stati Uniti erano la nazione peggiore al mondo per numero di donne che ricoprivano cariche al Congresso. Quel numero sta aumentando. E questo sta influenzando la legislazione. Voglio dire, penso che sia un processo che evolve nel tempo. Ma, allo stesso tempo, penso anche che siamo una nazione che si aspetta che le cose accadano rapidamente. Ma purtroppo non sempre è così. E serve avere persone di buona volontà che continuino a impegnarsi.
Crede che l’approccio personalistico del Presidente Trump in qualche modo tolga spazio a chi gli sta intorno, donne o uomini che siano? O, in modo paradossale, gliene fornisca invece di più?
Non c’è dubbio che a Trump piaccia avere l’attenzione, così come avere l’ultima parola. Può accettare consigli da chi lo circonda, ma penso che sia abbastanza a suo agio nel dire: “So cosa voglio, voglio farlo”, e si aspetta che le persone intorno a lui sostengano la sua posizione. Non lavoro alla Casa Bianca, quindi non ho certezze al riguardo, ma questa è la mia percezione: questa volta, le persone che lo servono sono quelle che seguono alla lettera le sue politiche. Per quanto riguarda la signora Trump, cosa abbastanza interessante, mantiene una certa tranquillità, sta dietro le quinte a fare le sue cose, e non viene mai menzionata per aver fatto dichiarazioni in un senso o nell’altro. A sostegno, ma neanche contro ciò che sta facendo suo marito.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla rivoluzione digitale e informatica, che credo abbia trasformato completamente il ruolo della First lady. È corretto?
È stato completamente trasformato. Pensiamo soltanto al livello di comunicazione, all’aspettativa di una copertura mediatica 24 ore su 24. E sappiamo che questo fenomeno ha influenzato non solo le First Lady ma anche i presidenti, per quanto riguarda il modo in cui vengono trattate le cose. C’è una certa istantaneità oggi. Riguardo alle First Ladies, alcune di loro forse non sono così a loro agio con la stampa, ma riconoscono che ogni loro mossa, ogni loro parola, viene riportata dai media, che cercano di individuare eventuali differenze di posizioni rispetto a quella dei loro mariti. E questo può essere problematico per loro, con un ritmo delle notizie che si estende per 24 ore su 24. In altri casi però c’è stata la possibilità di sfruttare queste dinamiche a proprio vantaggio.
A chi sta pensando?
A Michelle Obama, ad esempio, che è stata la prima a usare i social media alla Casa Bianca, ma li ha usati in modo efficace, per costruire un legame con le persone, in particolare con i giovani, che prima non si sentivano davvero coinvolti nella politica. Rivolgendosi a, come ha detto lei stessa, “persone che assomigliano a me e a Barack”. Ma ha usato anche la televisione, la cultura popolare, tutte le opportunità disponibili per costruire davvero un rapporto con il popolo. E questo probabilmente è successo perché, probabilmente, ha avuto molte più difficoltà ad adattarsi al ruolo. La pressione di essere la prima First Lady afroamericana non era facile, ma ha trovato il modo di contrastarla.