Trump e Xi hanno parlato di commercio, ma un malessere cinese aleggia sull’America e congela le relazioni bilaterali. Per uscire dallo stallo, forse Pechino dovrebbe affrontare il nodo della democrazia
Non è l’ideale, né un vero accordo, ma dopo decine di tweet, dichiarazioni e lamentele pubbliche, almeno una telefonata ha rotto la lunga impasse. Il presidente americano Donald Trump e il leader cinese Xi Jinping si sono sentiti al telefono. Hanno concordato di riprendere i negoziati commerciali, dando una spinta ai mercati, anche se per ora senza risultati concreti.
Tuttavia, al di là delle apparenze, tra Stati Uniti e Cina ci sono ferite profonde che non si rimarginano facilmente. Anzi, non è nemmeno chiaro se gli Stati Uniti vogliano davvero guarirle. È come se ci fosse un malessere esistenziale, un disagio radicato che riguarda l’America, le sue paure interne, e anche la Cina.
Negli ultimi anni, ci sono state almeno due occasioni in cui gli Stati Uniti avrebbero potuto mettere seriamente in difficoltà la Cina, ma hanno scelto di non farlo. La prima risale a gennaio 2020, con lo scoppio del Covid. Washington avrebbe potuto chiudere subito i confini con la Cina e sospendere ogni tipo di scambio, come fece nel 2003 con la Sars. In questo modo, avrebbe attuato il tanto annunciato “disaccoppiamento” economico e costretto Pechino in una crisi economica e politica devastante. Eppure, non l’ha fatto. Le motivazioni restano poco chiare.
La seconda occasione è stata a giugno 2023, durante l’insurrezione del capo mercenario russo Yevgeny Prigozhin. Quando Prigozhin ha marciato su Mosca, gli Stati Uniti avrebbero potuto proclamare la vittoria sulla Russia, fermare gli aiuti militari all’Ucraina e aspettare che la crisi politica destabilizzasse la Russia. Così facendo, avrebbero indebolito anche la Cina, strettamente legata a Mosca. Anche in questo caso, però, Washington ha scelto la cautela, non la strategia.
Questo dimostra che gli Stati Uniti non sono determinati a distruggere la Cina. Ma evidenzia anche un malessere profondo, che potrebbe esplodere in futuro se non si trova un modo per alleggerire — o addirittura risolvere — la tensione.
La verità è che non esiste un piano strategico americano per abbattere il Partito Comunista Cinese (Pcc). Ma non esiste nemmeno un piano per convivere pacificamente con esso. È un disagio latente, che non esplode ma continua a cuocere a fuoco lento l’America, la Cina e il mondo intero. Somiglia a ciò che gli Stati Uniti provarono alla fine degli anni Trenta di fronte al Giappone o alla Germania nazista: non riuscivano a sopportarli, ma non erano nemmeno pronti a schierarsi apertamente contro di loro.
All’epoca fu Pearl Harbor a far deflagrare il malessere. Ma forse, anche senza l’attacco giapponese, qualcosa prima o poi avrebbe fatto scoppiare il conflitto. Oggi, cosa potrebbe essere il nuovo Pearl Harbor?
Il nodo della democrazia
Tra le questioni che preoccupano la Cina, ce ne sono quattro fondamentali, e una delle più spinose è proprio la democrazia. Il Pcc ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con essa: una specie di fiume carsico che ogni tanto riaffiora, per poi scomparire, ma non si esaurisce mai. Pechino teme che la democrazia sfugga al controllo e porti caos. Eppure, è stata anche un’aspirazione interna al partito, fin dagli anni precedenti alla presa di potere di Mao, dopo la Rivoluzione culturale, nel 1989 con le proteste di Tiananmen, e forse ancora tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000.
La democrazia non è una cosa pura: ha elementi “veri” e “falsi”. I “falsi” sono legati a interessi economici e istituzionali che ne limitano la portata. I “veri” si riferiscono alla libertà di opinione — che però, anche quella, è credibile solo se riconosciuta dal sistema. Le opinioni fuori dal coro vengono ignorate.
Tuttavia, esistono elementi che la Cina potrebbe valutare per avvicinarsi a un modello politico più aperto, senza illusioni. La democrazia, nel contesto delle economie di mercato, ha una funzione ben precisa.
Le economie di mercato non crescono in modo lineare: attraversano crisi, e le aziende falliscono. Quando c’è una crisi economica, può diventare anche sociale. Per evitare che una crisi sociale degeneri in politica, le democrazie moderne si affidano alle elezioni: il governo in carica si dimette, si prende la colpa, e ne arriva un altro. Il sistema si “resetta”.
È un meccanismo di responsabilità limitata, simile a quello delle imprese. Se un’azienda fallisce, il titolare non va in galera. Questo consente di riprovare, rilanciarsi. Molti grandi imprenditori sono passati per più fallimenti prima di avere successo. Henry Ford non avrebbe mai fondato la sua compagnia se fosse stato personalmente responsabile dei suoi debiti.
Questo sistema permette di gestire le crisi senza crollare. Il segreto della democrazia moderna è proteggere i leader politici dalla vendetta o dalla rovina totale. Nei regimi autoritari, chi perde il potere rischia la vita.
Come adattare tutto questo alla Cina, rassicurando gli Stati Uniti senza destabilizzare il paese? Un tempo, quando i rapporti tra Washington e Pechino erano buoni, la Cina avrebbe potuto avviare esperimenti, condividere un progetto. Ora è tutto più difficile.
Ma resta questo il grande nodo da affrontare, per la Cina e per tutti coloro che guardano con timore o speranza alla sua ascesa.