Per il secondo mese consecutivo la produzione di acciaio nel Dragone è crollata e difficilmente si tornerà oltre il miliardo di tonnellate. I dazi c’entrano fino a un certo punto, il nodo è nella domanda che si è fermata. E così Pechino perde un altro gioiello
Un Paese, tanti mali. Il volto oscuro della Cina nasconde un’altra crisi, profonda. Forse è ancora presto per parlare di declino, di strada a senso unico, di quadro irreversibile. Fatto sta che dopo il mattone, è il turno dell’acciaio. Premessa: la Cina è oggi il primo produttore mondiale di acciaio, anche grazie a prezzi più competitivi rispetto alle altre industrie, a discapito, però, della qualità. Eppure nella siderurgia cinese qualcosa si è inceppato. I segnali c’erano, anche se erano ancora timidi. Adesso, però, ci sono i numeri a trasformare la sensazione in una certezza.
Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica della Cina, le aziende siderurgiche cinesi hanno ridotto la produzione di acciaio del 6,9% a maggio 2025 rispetto a maggio 2024, attestandosi a 86,55 milioni di tonnellate prodotte. Si tratta del secondo calo mensile consecutivo, dopo il crollo, inaspettato, ad aprile. E questo nonostante il governo abbia annunciato piani per la ristrutturazione del settore siderurgico già a marzo. Ancora, nei primi cinque mesi del 2025, la produzione di acciaio nel Paese è diminuita dell’1,7% su base annua, attestandosi a 431,63 milioni di tonnellate. E, sempre a maggio, il volume medio giornaliero è stato di 2,79 milioni di tonnellate, il 2,6% in meno rispetto ad aprile (2,87 milioni di tonnellate).
Secondo le previsioni della China Iron and Steel Association, la produzione di acciaio in Cina diminuirà del 4% su base annua nel 2025 e anche per questo gli esperti osservano che il 2024 sarà probabilmente l’ultimo anno in cui la produzione di acciaio in Cina supererà 1 miliardo di tonnellate. Che succede? Ci sono due fattori, uno interno, l’altro esterno. Il primo è senza dubbio il più importante. Il collasso del comparto immobiliare ha fermato centinaia di migliaia di cantieri, riducendo così la domanda di acciaio. A conti fatti, è la crisi del mattone che si è propagata alla siderurgia.
L’altro freno sono i dazi. Gli Stati Uniti hanno posto prima tariffe maggiorate del 25% su acciaio e alluminio in ingresso, per poi raddoppiarle al 50%. Poi c’è stata la svolta diplomatica e, verosimilmente, le barriere commerciali torneranno ad abbassarsi. L’impatto, però, c’è stato. E oggi la Cina si ritrova con un’altra punta di diamante spuntata. Al punto che rischia di andarci di mezzo persino la transizione.
Pechino, che punta alla neutralità carbonica entro il 2060, ha messo a punto un piano per la siderurgia, pubblicato nel maggio del 2024. Una strategia che prevede, tra le altre cose, il risparmio energetico e la riduzione delle emissioni di carbonio mediante l’aumento della produzione da forni elettrici al 15%, il raggiungimento di un parametro di riferimento di efficienza energetica del 30% su tutta la capacità. Tutto questo per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica di circa 53 milioni di tonnellate dal 2024 al 2025. Ma ecco il problema.
Ma le aziende siderurgiche cinesi attualmente non dispongono dei margini di profitto necessari per investire nei cambiamenti necessari e incastonati nel piano e dunque portare avanti la decarbonizzazione. Nel 2024, tanto per dare due cifre, il margine di utile netto medio per le imprese siderurgiche della Repubblica popolare era dello 0,71%, con un calo dello 0,63% su base annua, secondo la China Iron and Steel Association. Di qui il rischio di greenwashing o, peggio, di una transizione finta.