Il 26 giugno del 1925 usciva a New York “The Gold Rush” (“La febbre dell’oro”) di Charlie Chaplin, uno dei capolavori assoluti della storia del cinema. Una carrellata sull’arte di Chaplin, da Vincenzo Cerami, passando per Mario Verdone a Goffredo Fofi. Meno convinto, nel 1927, lo spettatore Eugenio Montale. Una riflessione di Eusebio Ciccotti
Le gag di Charlot
«Charlie Chaplin si può considerare l’incontrastato re della gag comica. Per capire cos’è la gag faciamo un esempio.
Due signori sono in piedi uno vicino all’altro, visti di spalle. Una sola sedia. Uno sfila la sedia dal sedere dell’altro e si siede lui. Quell’altro sta per sedersi e capitombola a terra.
È una gag classica, semplicissima, meccanica.
Il genio di Charlie Chaplin la modifica in questo modo: Charlot, velocissimamente, sfila la sedia alle spalle del vicino e si siede lui.
L’ignaro sta per sedersi nel vuoto, ma Charlot ci ripensa all’ultimo momento e, mentre quello comincia ad abbassarsi, lui fa in tempo a rialzarsi, a rimettere la sedia sotto il sedere dell’altro e a fargli un bel sorriso.
Tutto regolare, non è sucesso niente: nessun capitombolo. Ma la risata del pubblico è sicura, pronta, intrattenibile. Non si ride più per un capitombolo, ma per un capitombolo mancato» (Vincenzo Cerami).
Naturalmente, questa è una delle gag “storiche” di Charlot presenti nei suoi primi film degli anni Dieci. Ma come si trasforma la gag nel Chaplin maturo, quello da The Kid (1921), passando per The Gold Rush, The Circus, e City Lights sino a Modern Times? Sicuramente abbiamo gag più articolate, più narrative: ossia diventano dei mini racconti surreal-dadaisti. Per esemio, in The Kid (Il monello, 1921) «(…) è disteso sul letto. Legge un vecchio giornale della polizia (sic!). Il figlio lo chiama per il pranzo. Si alza, prende la coperta, scopriamo che questa ha una feritoia se la fa scivolare addosso e diventa, tramite l’apertura, un pigiama” (Mario Verdone).
La febbre dell’oro (1925)
Ma entriamo in The Gold Rush (La febbre dell’oro, 1925), di cui tra pochi giorni ricorre il centenario, una storia ambientata tra quei poveri, speranzosi, talvolta violenti, cercatori d’oro di fine Ottocento, tra le montagne dell’Alaska. Prendiamo la celebre gag dello scarpone cucinato. Il “cuoco” Charlot, lo sta tirando fuori, con delicatezza, dalla pentola fumante, poi lo pone in un piatto, sul piccolo tavolo. Ora, lo sporziona in due piatti, uno per sé, l’altro per il rude e iroso Big Jim (Mack Swain, caleidoscopico: dalla rudezza, alla follia, alla bontà), affamato. La parte superiore (il cuoio dello scarpone) in un piatto; la suola con i chiodi nell’altro. In un piattino i lacci-spaghetti. Naturalmente, con un mestolino, la mano ferma da chef, aggiunge il “brodino” (acqua sporca!), colato con delicatezza, a condire, le due porzioni.
Ogni spettatore può far somigliare, con l’immaginazione, quello scarpone diviso in due sezioni, a un pezzo di carne o a un pesce, visto che poi Charlot succhia, uno per uno, anche i chiodi delle scarpe come fossero ossicini di volatile o lische di pesce. Questa scena, insieme a quella successiva, la danza dei panini-gambe di una immaginaria ballerina, nel sogno della vigilia di Capodanno di Charlot, in un’altra baracca più accogliente, sono i due mini-racconti geniali, indimenticabili, dallo spirito d’avanguardia dada-surrealista, fissati nella storia dell’immaginario. La febbre dell’oro lo si può definire il quarto capolavoro di Chaplin dedicato al personaggio di Charlot, dopo L’emigrante (1917), Charlot soldato (1918), Il Monello (1921).
Quando il comico nasce dalla tragedia
Nel 1923, due mesi dopo la prima di A Woman of Paris (in cui non c’era il personaggio di Charlot: film apprezzato dalla critica, ma sonoro flop, il pubblico, dopo il successo planetario del Monello, si aspettava di rivedere “l’omino buffo” sul telone), Chaplin confessa, nella sua Autobiografia (My Autobiography, 1964, trad. di Vincenzo Mantovani, Mondadori), «ero ansioso di ripetere il successo del Monello».
Ma le idee non arrivavano: «Per settimnae mi arrovellai nel tentativo di trovare una buona idea. […]. Continuavo a ripetermi, “Il prossimo film deve essere una epopea! Il più grande!”. Ma non giungevo a capo di nulla. Poi, una domenica mattina, con Douglas [Fairbanks], dopo colazione [visionai], delle diapositive stereoscopiche. Alcune erano vedute dell’Alaska e del Klondike; una era del Chilkoot Pass, con una lunga fila di cercatori che scalavano il monte coperto di ghiaccio […]. Pensai che questo era un tema magnifico. Non fu una idea improvvisa. Il desiderio di scrivere un soggetto su quell’argomento si fece strada in me a poco a poco. […]. È paradossale che nella elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo […] dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza di fronte alla forza della natura, se non vogliamo impazzire […]. Lessi un libro sulla spedizione Donner che, diretta in California, sbagliò strada e si smarrì sui monti coperti di neve della Sierra Nevada. Su centosessanta pionieri ne sopravvissero solo diciotto: per la maggior parte morirono di fame e di freddo. Alcuni si diedero al cannibalismo, divorando i corpi dei caduti, altri arrostirono i mocassini per alleviare i morsi della fame. […]. [Nel film ] In preda a una fame irresistibile mi bollivo una scarpa e la mangiavo, togliendone i chiodi come se fossero le ossa di un tenero cappone e mangiando le stringhe come spaghetti» (pp. 362-363).
La maschera di Charlot tra circo e letteratura
La “maschera” di Charlot, ossia il suo abbigliamento (pantaloni larghi e fisarmonica, grandi scarponi su piedi piatti, gilet e fiocco consunti, giacca lunga consumata, bombetta e bastoncino, oltre ai baffetti), ci fa pensare a un uomo appartenente all’ex ceto medio inglese, finito a vivere in strada. Anche se poi egli dirà, nella citata autobiografia, che un giorno, entrando nel caotico guardaroba degli studios di Max Sennett, prese quei pezzi di vestiario qua e là, indossandoli, seguendo un istinto meccanico. Ma in realtà, con il senno di poi, possiamo dire che egli operò un autentico montaggio senza logica apparente, decisamente dadaista (non per niente, a partire dal 1918, per dadisti e surrealisti era il loro autore per eccellenza) che, tra l’altro, inconsciamente, lo riportatva alla Londra della su infanzia.
Un comparatista ante litteram come Mario Verdone, ha più volte ricordato, nei suoi scritti sul grande attore e regista, come questi fosse sempre innamorato del circo e, soprattutto, come «la maschera di Charlot provenisse dalla tradizione del clown bianco». Un altro eccellente comparatista, Goffredo Fofi, ci aiuta a leggere magistralmente The Gold Rush legandolo a doppio filo alla letteratura americana: «In chiave comica, Chaplin attraversasa in La febbre dell’oro molte situazioni tipiche dei racconti di London».
Chaplin tra “croci” e creazione artistica
Nella seconda scena di The Kid, quando la donna (l’attrice Edna Purviance: uno dei suoi amori) esce dal Charity Hospital, dove ha partorito un figlio, e lo spettatore capisce che è una ragazza madre, ed ella non sa dove andare, se non su una panchina in un piccolo giardino pubblico, con una fontana che zampilla festosa in secondo piano (simboleggia la vita che ella stringe tra le braccia), Chaplin regista, introduce la più riuscita metafora cinematografica mai vista sino ad allora: un Cristo piegato sotto il peso della croce (è un gruppo scultoreo a un’ora da Hollywood).
Ecco, tutta la vita privata di Charlie Chaplin è stata punteggiata costantemente da tensioni, nervosismi, problemi, ossia da croci (matrimoni falliti, cause di divorzio delle tre ex mogli con richieste astronomiche di denaro; accuse di paternità non vere; desiderio di divenire un produttore indipendente dal mercato), innegabili tragedie personali, che però gli daranno la forza di reagire comicamente con dei capolavori sul piano artistico (sino a trovare anche, curiosamente, nella vita privata, nel 1943, l’amore vero, a 54 anni, con la diciottenne Oona O’Neill, sua quarta moglie).
Riservato e accanito lettore
Quello che il largo pubblico, ancora oggi, non conosce è la grande curiosità intellettuale di Charlie Chaplin: egli non amava le roboanti feste di Hollywood, con la coda obbligata di ubriacature, tradimenti nelle coppie, scambi più o meno consenzienti di partner, ed eventuali orge. (Una di quelle, terminò con il violento stupro-femminicidio di Virginia Rappe, il 5 settembre 1921, ad opera di Roscoe Congling Arbuckle, per il pubblico “Fatty”, colui che, al tempo del muto, lanciò il personaggio del grassone nel cinema, stella di Hollywood. In A Woman of Paris, nella festa al quartiere latino di Parigi, Chaplin allude a questa vita sociale “allegra” ma cupamente triste, di Hollywood)
Chaplin, con la sua moglie-bambina di turno (questo suo “limite” affettivo lo condizonò per anni) amava la tranquillità dei week-end (frequentava solo Douglas Fairbank e sua moglie Mary Pickford), un sacrosanto periodo di riposo settimanale, nel quale, oltre alla conversazione, si ritagliava tempo per leggere (nella sua vita, conobbe diversi personaggi: da Einstein a Gertrude Stein, da Bernard Shaw a G. H. Wells, da Winston Churchill a Ghandi, e non intendeva intavolare sciocche discussioni). Leggeva: giornali, riviste, libri, certamente per sete di conoscere, lui che frequentò solo alcuni anni della primaria a Londra, a causa della malattia della madre, attrice di varietà, senza un padre (era un attore; aveva abbandonato la famiglia soggiogato dall’alcool e dalla depressione). Chaplin leggeva, inoltre, superfluo ricordarlo, anche per cercare dei soggetti per il suo clochard del Novecento, il nuovo povero dei “tempi moderni”.
Cento anni e non li dimostra
La febbre dell’oro, dopo cento anni, non presenta, dal punto di vista narrativo e registico, un momento di esitazione, una manciata di secondi dei quali potremmo dire, “non erano necessari”, un gruppetto di fotogrammi in sovrappiù che oggi taglieremmo. La febbre dell’oro appartiene a quelle opere che nonostante il racconto filmico “evolva” sul piano estetico, rimangono perfette, da guadagnarsi il giusto appellativo di “capolavoro senza tempo”.
Il racconto è un continuo alternarsi di scene comico-drammatiche (la baracca paurosamente oscillante sul picco di un precipizio, non appena i due personaggi, Charlot e Big Jim, si spostano entrambi su un lato: ottenuto con il basculamento della camera); drammatiche (il ricercato Black Larsen mentre uccide senza pietà, sulle montagne innevate, sotto la tormenta, i due rangers sulle sue tracce per arrestarlo); psicologiche (l’amore di Charlot per Giorgia – Georgia Hale: delicata nel cambiare atteggiamento -, inizialmente non corrisposto); romantiche (lo sbocciare improvviso, poi, dell’amore di Giorgia per lui: davanti alla deserta tavola apparecchiata con i regali, nella notte di San Silvestro).
Il capolavoro secondo Montale
Eppure un grande poeta come Eugenio Montale espresse delle riserve: «Ho visto anch’io La febbre dell’oro […] Charlot pare a me un artista difficile, il fondo ebraico della sua arte e della sua tristezza indubitabile, la natura del suo humour a doppia a tripla faccia poco accessibile al ‘pubblico’» (1927). Continua Montale: «Il tempo deciderà: e dirà se lo scroscio di risa che accompagna oggi il corpo di Charlie Chaplin sporgente sull’abisso sia lo stesso che sollevano le cadute di Ridolini; o se abbia in sé alcunché di più doloroso e consapevole, come pensano taluni, come penso io stesso talvolta».
Montale, calato dentro l’esistenzialismo di Ossi di seppia (1925: in Italia abbiamo, da tre anni, il regime fascista), comprendeva perfettamente la profondità della “tristezza” di Charlot (lontana, ci pare, però, da un presunto ebraismo “artistico” dell’attore), ma non riusciva a vedere, da laico, che quel clochard, nei suoi finali (La febbre dell’oro è, tra l’altro, l’unico film che chiude addirittura con un bacio sulle labbra tra il personaggio e una donna!), approdava ad una speranza paolina dopo il calvario del quotidiano (dall’Emigrante passando per Il Monello, appunto La febbre dell’oro e Il circo, e poi Luci della città, sino a Tempi moderni).
I finali di Charlot, sono la speranza realizzata di quel bambino cui la madre, in uno seminterrato della povera Londra, la sera, senza riscaldamento e con poco cibo, leggeva i passi del Vangelo, preferendo la passione di Gesù, che ella recitava «sino a piangere tutti e due»
Al grande poeta ligure, inoltre, probabilmente, faceva difetto la conoscenza dell’evoluzione del linguaggio del cinema, se ancora paragonava, a ridosso degli anni Trenta, la comicità di Ridolini a quella di Charlot. (E, dalla “recensione”, deduciamo una sua visione forse ‘distratta’, da non consentirgli di soffermarsi su diversi passaggi fortemente riusciti dell’opera).
Lo stile registico
Chaplin preferisce i campi medi e i piani d’insieme. Panomariche ridotte. Talvolta si appassiona a dei brevi carrelli, motivati dal seguire il “suo” personaggio. Il primo piano, centrale nella sua grammatica, è quello classico, “largo”, che taglia all’altezza del busto. Raramente troverete in tutto il suo cinema un ppp alla Griffith o alla Dreyer. E per una ragione semplicissima: il movimento è tutto dentro il quadro: è la gestalità e la mimica di un attore unico. Lo spettatore deve lanciare il suo occhio in un continuo viaggiare: dalla bombetta, al bastoncino, dai baffetti agli occhi, dal sorriso al movimento di un braccio. Elementi linguistici che cambiano la “composizione” del quadro, di azione in azione. Il “montaggio delle emozioni” è demandato a noi spettatori. Con Chaplin siamo autenticamente co-autori.
Chaplin regista ricorre al dettaglio solo se sintatticamente necessario. In La febbre dell’oro, abbiamo, per esempio il piede, quello avvolto nello straccio: ma solo grazie ad un ruolo plastico: il fiammifero di una amica di Giorgia, gettato in terra con nonchalance, ci finisce sopra, e inizia a prendre fuoco, innestando un’altra delle sue famose gag.
Anche il montaggio è volutamente essenziale ed ellittico. La prima volta che Charlot entra al Tabarin, la camera rimane alle sue spalle. Lo spettatore vede il locale pieno di persone che si divertono, rimanendo dietro al personaggio, che occupa la parte centrale, quasi “ostruendo” parte dell’inquadratura. Ora, un altro regista avrebbe tagliato e mostrato il suo primo piano dell’attore in soggettiva, per completare la sua visone del locale. Chaplin regista, invece, resta alemeo 10 secondi con tale immagine fissa: lo spettatore è costretto ad immaginare la meravigliata faccia del timido Charlot, di fronte alla folle allegria di un inatteso Tabarin tra le montagne dell’Alaska, per un pubblico pesante di cercatori d’oro, diversi ubriachi, con alcune belle ragazze che cantano (tra le quali Giorgia).
La rivolta “sociale” di Charlot
Charlot introduceva nel cinema borghese la “rivoluzione” di un debole, di un emraginato, di uno che dormiva con i cani in strada. Parlando di fame e sofferenza diceva della mancanza di uguaglianza; facendo passeggiare un poliziotto per le vie, alludeva alla paura del potere da parte dell’ultimo della società. E lo poteva fare perché tutto era cucito magistralmente dentro una forma inedita del comico: in modo da infrangere la legge della censura (come i vetri dalle sassate del Monello) senza darne l’impressione. E i cattivi? Ne abbiamo uno anche in La febbre dell’oro, appunto Black Larsen (Tom Murray: bravo nel suo carattere truce), ma il destino lo punirà ingoiandolo dentro una frana di un costone ghiacciato.
Nell’occidente capitalista non era possibile assumere il modello estetico del marxismo, come in quegli anni proponeva il cinema del realismo sovietico (Sciopero, 1924 e La corazzata Potëmkin, 1925, Sergej M. Ejzenštejn), all’interno di una “democrazia popolare controllata” (che, purtroppo, deportava gli oppositori in Siberia).
La “rivoluzione” di Chaplin era, in un certo senso, ancora più difficile. Ecco che un clochard, mentre deambula raccogliendo cicche da terra, “trova” un neonato abbandonato tra i vicoli poveri e sporchi di una malandata periferia urbana del ‘Nuovo Mondo’: lo crescerà difendendolo da chi tenterà di portaglierlo via (The Kid). Ancora, il nostro povero senzatetto è pronto a offrire tutto quello che non ha per aiutare una bella fioraia cieca, credendo nel miracolo dell’amore, sino ad andare in prigione per una felicità superiore (City Lights). Il cercatore d’oro, sereno nella sua solitudine, tra fame e freddo, non perde la speranza; certo, diventa triste quando si innamora non ricambiato (come accade a tutti), ma va avanti.
Gli spettatori, di ogni ceto sociale, delusi dalla Storia dopo la tragedia della Grande Guerra, appartenevano a una generazione affamata di speranza. Sono gli spettatori di ogni epoca, siamo noi, oggi, dentro le folate della vita, come l’incessante gelido vento sulle nevi del Klondike: tra umorismo, tragedia e melodramma, fra tristezza e speranza. Tra guerra e desiderata pace.