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La deterrenza francese non basta. Perché Kyiv ha bisogno degli Usa secondo Fabbrini

La telefonata tra Macron e Putin ha riaperto un dibattito profondo sul ruolo dell’Unione europea nella scacchiera geopolitica. Un gesto fuori spartito, ma coerente con il temperamento del presidente francese, che cerca spazio dove altri arretrano. Tuttavia la Francia non può sostituirsi agli Usa e l’unico che può ottenere qualcosa dallo zar è Tump. L’accordo sui dazi? Il 10% è un costo folle per l’Ue. Colloquio con il politologo Sergio Fabbrini

Un tentativo di grandeur. La telefonata tra il presidente francese Emmanuel Macron e Vladimir Putin ha riaperto un dibattito profondo sul ruolo dell’Unione Europea nella scacchiera geopolitica. Un gesto fuori spartito, ma coerente con il temperamento del presidente francese, che cerca spazio dove altri arretrano. Formiche.net ha raggiunto il professor Sergio Fabbrini, politologo, saggista e profondo conoscitore dei meccanismi europei, per mettere ordine tra le pieghe strategiche di questo momento e comprendere le tensioni interne ed esterne all’Unione.

Professore, come interpreta la telefonata di Macron a Putin?

Macron ha un temperamento che lo porta spesso a uscire dagli schemi. Non è solo una questione personale, c’è anche una dimensione strutturale: la Francia è l’unico paese dell’Unione che siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU (di cui fa parte anche la Russia) e dispone di una deterrenza nucleare significativa. Questo le conferisce in qualche misura una prospettiva autonoma sulla politica internazionale. Per lo meno questa sarebbe l’ambizione del presidente.

C’è chi parla di un’iniziativa solitaria a fronte di un vuoto lasciato dalla regressione americana. È così?

Sì, Macron si muove in uno spazio lasciato scoperto da altri. Pensiamo agli Stati Uniti: durante l’amministrazione Biden fu presa la decisione di non fornire all’Ucraina le armi letali che erano state promesse. Trump ha nei fatti disatteso questo accordo e non sembra interessarsi al fatto che la Russia controlli un quinto del territorio ucraino. In questo quadro, l’Europa si trova senza un centro decisionale vero.

Le istituzioni europee non sono attrezzate per una politica estera che tenga conto di questo scenario globale così complesso?

La Commissione Europea non ha competenze effettive in politica estera. Il Consiglio Europeo, invece, è diviso. Non c’è un’unica voce. E quindi è normale che i singoli leader provino a muoversi. La telefonata di Macron rientra in questo schema: da un lato, il tentativo di sondare un possibile spiraglio diplomatico con Putin dopo il fallimento del piano di pace avanzato da Witkoff; dall’altro, anche una volontà di normalizzare rapporti personali.

La Francia può davvero guidare un’iniziativa diplomatica determinante per gli equilibri del conflitto?

No, non può sostituirsi agli Stati Uniti. Il soft power americano è ineguagliabile. Alla fine, se c’è qualcuno che può davvero ricondurre Putin a più miti consigli, quello è Trump. Per quanto controverso, è uno degli interlocutori che il Cremlino è costretto ad ascoltare.

E sul fronte della difesa comune europea, quale può essere il ruolo francese?

Macron e Merz possono essere figure importanti per questo processo, ma bisogna essere chiari: la difesa europea non può basarsi solo sulla deterrenza nucleare francese. Serve un sistema multinazionale, sotto controllo del Parlamento europeo. Non si tratta solo di mettere insieme eserciti, ma di costruire un modello di difesa ancorato alla tradizione democratica dei Paesi membri.

Parliamo di dazi: cosa c’è da aspettarsi dalla trattativa in corso con gli Stati Uniti?

L’accordo è ancora in alto mare. Il nodo è anche legato alla sicurezza. Un dazio del 10% sulle esportazioni europee rappresenta un costo elevatissimo per le nostre imprese. Non si capisce perché dovremmo accettare un’imposizione unilaterale da parte di Trump. È evidente che è una partita politica, non solo economica.

Infine, la tenuta della maggioranza europea. Come interpreta le prese di posizione dei Socialisti, sempre più critiche verso von der Leyen a maggior ragione attorno al Green Deal?

Sarebbe insensato per i Socialisti uscire dalla maggioranza, anche se non c’è un vincolo di fiducia formale. Il Ppe ha deciso di giocare una partita a destra, legittima, ma i risultati finora sono stati modesti. La difesa a oltranza del Green Deal, senza alcuna revisione, rischia però di isolare i socialisti. È importante riconoscere che attorno a quel piano ci sono malesseri reali nel mondo industriale. Anche se la questione ambientale è cruciale, serve più realismo.


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