Ricordare tra pochi giorni il 12esimo anniversario del sequestro del gesuita romano del quale nulla si è saputo dal 29 luglio del 2013 sarà utile per tutti i siriani. E molti di loro lo fanno quotidianamente: è la Siria che sa come tradurre il dolore altrui. La riflessione di Riccardo Cristiano
Dopo la I guerra mondiale la Società delle Nazioni affidò alle grandi potenze europee vincitrici del conflitto il compito di favorire la nascita di Stati moderni in vasta parte dei territori degli imperi sconfitti, quello ottomano e quello tedesco. Alla Francia questo compito fu affidato per l’odierna area siro-libanese. Di lì a breve si insediò a Damasco il generale Henri Gouraud, per avviare l’impresa. Al suo fianco Parigi pose quale segretario il diplomatico e visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour. Questi, stando alla ricostruzione storica di Peter Shambrook- durante uno dei loro primi colloqui- fece presente al generale che a suo avviso disponevano di due sole opzioni: “costruire una nazione siriana che non esiste, ammorbidendo le profonde frizioni che la dividono, o coltivare e mantenere questo fenomeno, che richiede il nostro arbitrato, frutto di queste divisioni. Devo dirle che la seconda opzione è la sola che mi interessi”.
Quando l’esperienza coloniale si concluse e la Siria divenne uno Stato sovrano emerse ben presto un’instabilità politica che portò a diversi colpi di Stato, coronati da quello degli Assad. Appartenenti alla minoranza degli alawiti, gli Assad si confrontarono ben presto con il problema del consenso: il capostipite, Hafez, affidò ruoli di primo piano nella sua giunta a familiari, a cominciare dal fratello, ma si rese rapidamente conto che essendo espressione di una minoranza che rappresentava circa il 10% della popolazione mentre i sunniti erano la maggioranza assoluta, il principale problema da cui avrebbe dovuto guardarsi era la temibile infedeltà sunnita: un sunnita avrebbe potuto scalzarlo facilmente e avere una base di riferimento assai più ampia. Così affidò a persone di sua fiducia, quasi tutte della sua comunità, gli incarichi più importanti, i servizi di sicurezza.
Conosceva la visione di Robert de Caix de Saint-Aymour? Di certo non cercò la benevolenza dei sunniti, ma schiacciò la protesta insurrezionale dei Fratelli Musulmani, parte della comunità sunnita, con ferocia inusitata. Il massacro di Hama, quando in poche ore furono eliminati decine di migliaia di residenti, ne è dal 1982 il manifesto ideologico. L’urto confessionale per governare era garantito anche da piccoli gruppi di provocatori assoldati dal regime, che compivano incursioni in territori di altre comunità, creando risentimento, dissidi, e rafforzando il “centralismo assadista”, fondato su lealtà tribali (o personali) e autorità assoluta.
L’identificazione del clan degli Assad e dei suoi fedeli con tutta la comunità alawuita è stato il prodotto odioso della semplificazione “comunitarista” che ha portato di recente al massacro di contadini, donne, anziani e bambini alawuitii. Le sofferenze dei sunniti durante la feroce e interminabile stagione degli Assad non consentivano a questi ultimi di vedere le sofferenze di molti alawuiti durante la stessa stagione assedista: loro erano i nemici. I gerarchi alawiti del sistema Assad ne erano la feroce espressione.
Dopo la conquista del potere da parte di Ahmed al-Sharaa e delle sue milizie islamiste sunnite sostenute dalla Turchia, un gruppo di ufficiali fedeli al deposto Bashar al Assad, a marzo di quest’anno, ha tentato un’insurrezione armata da territori a maggioranza alawuita e molti sunniti hanno reagito in base ad un istinto automatico: scongiurare il golpe non di questo o quel generale, ma degli alawuiti. Milizie jihadiste affiliate direttamente e indirettamente al sistema di potere del nuovo presidente (sunnita) hanno fatto strage, casa per casa, quartiere per quartiere, di alawuiti, affiancate in questo da pezzi di popolo sunnita inferocito, timoroso, desideroso di vendetta per i passati torti, per le vessazioni di mezzo secolo. Dopo ore tremende il governo ha fermato ( o rallentato) la mattanza, nominato una commissione d’inchiesta, che ha promesso un report completo entro un mese, mai visto, almeno sin qui.
La tragica vicenda dei drusi e della carneficina che ha avuto luogo in questi giorni nella loro città, Sweida, è molto simile. I drusi sono una minoranza chiusa nella loro montagna, fiera e timorosa del centralismo di Damasco dai tempi dei francesi: ed è ancora così. Ma il dolore dei drusi non conosce il dolore dei sunniti come quello degli alawuiti o di altri, come gli altri non conoscono il loro: nella lingua comune a tutti loro un traduttore del dolore altrui non c’è. La mattanza clanico-tribale che ha avuto luogo in questi giorni, con gli ospedali di Sweida tramutati in obitori, ha origine in un meccanismo perverso: la vittimizzazione sunnita durante l’interminabile regno dell’orrore degli Assad ha creato anche un suprematismo sunnita: “Noi siamo le vittime, noi siamo i migliori”.
Questo duplice istinto si è riversato anche contro i drusi, che da tempo negoziavano con Damasco accordi sulla sicurezza nei territori dove sono maggioranza. Ma le tribù sunnite di quelle zone vogliono che ora siano loro ad avere il potere, come a Damasco anche lì. Per questo è quasi impossibile che l’incidente che ha dato origine all’incendio sia accaduto senza che il governo di Damasco sapesse. Mentre si trattava di questi accordi sulla sicurezza nei territori drusi, tribù sunnite hanno posto sulla strada principale un loro posto di blocco e quando è passato un ricco commerciante druso lo hanno derubato e sequestrato. Possono gli uomini di al- Sharaa non aver capito cosa avrebbe prodotto quel posto di blocco? No. I fatti che sono seguiti sono stati atroci e feroci come quelli verificatisi sulla costa alawuita. Odii antichi, sete di vendetta, bande regolari e irregolari, hanno aggredito i drusi, che hanno reagito analogamente.
Il cessate il fuoco reggerà e non reggerà, Sweida ora è in mano ai drusi, i beduini mobilitatisi da tutta la Siria per difendere i loro fratelli dall’aggressione drusa sono stati richiamati, per ora. Ma il problema non si risolverà fino a quando al Sharaa, se ne sarà capace, non volterà le spalle al “centralismo assadista” con cui ha governato sin qui. Le comunità, straziate da violenze e da sete di vendetta, possono trovare un modo solo per trovare il traduttore del dolore altrui: non considerarsi blocchi monolitici, che sostengono o avversano governi espressioni di questa o quella comunità.
Un governo che unisca esponenti moderati ma rappresentativi di tutte le comunità, che si confrontino a partire dai bisogni e dai diritti della loro comunità per arrivare poi a quelli di tutti i cittadini siriani, è la sola strada, quella che al Sharaa non ha voluto percorrere. Perché non vuole? O perché non può? Ed è chiaro che al Sharaa ha settori estremisti nella sua “coalizione”, nell’arco di forza che lo sorreggono e deve pagare loro un prezzo. Lo ha pagato già due volte, un prezzo tremendo, e discettare se lo abbia fatto con soddisfazione o controvoglia conta poco. I suoi atti infatti producono un effetto uguale e contrario sulle altre comunità e le potenze esterne si dichiarano protettrici di una comunità o dell’altra per tutelare i propri interessi. Allontanare le comunità allontana il consolidamento dello Stato, quello che doveva far emergere il protettorato francese.
Il bivio indicato dal visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour è ancora lì e la prima strada, quella di smussare gli angoli anziché renderli più duri non è stata ancora scelta da nessuno. La soluzione che qualcuno già intravede sono dei protettorati su segmenti di territorio siriano, diviso su linee clanico-confessionali. Questo dovrebbe essere avversato dai cristiani, ormai ridotti al lumicino anche per aver ceduto in alcuni alla logica della protezione. E dovrebbe essere così non solo per un’ ideale adesione all’idea di cittadinanza, ma perché i cristiani sono un po’ ovunque, non hanno un loro territorio da affidare alla protezione di qualche attore, interno o esterno. Ma la lezione di padre Paolo Dall’Oglio è meno seguita tra le leadership siriane di quella del visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour. Ricordare tra pochi giorni il 12esimo anniversario del sequestro del gesuita romano del quale nulla si è saputo dal 29 luglio del 2013 sarà utile per tutti i siriani, e molti di loro lo fanno quotidianamente: è la Siria che sa come tradurre il dolore altrui.