Se è vero che Trump ha tutto l’interesse a portare a casa risultati immediati e tangibili in ossequio al fattore tempo, è anche vero che non ha alcun interesse a far saltare il banco. Per cui, verosimilmente, accordi accettabili sui dazi e sulle altre questioni aperte verranno raggiunti. Il commento di Andrea Ferretti, docente al Corso di Family Business Management presso l’Università di Verona
Ormai è piuttosto evidente che la vera sfida che Trump dovrà affrontare sarà tutta interna e riguarderà la pericolosa triade composta da debito, deficit e dollaro. Infatti, il presidente americano si trova già oggi a dover fronteggiare, da una parte, un debito pubblico che ha ormai superato i 36000 mld di dollari ed un rapporto deficit su Pil che ha toccato la soglia (da molti considerata insostenibile) del 7%. Dall’altra, non potrà trascurare ancora per molto un dollaro sempre più debole e sempre meno percepito come valuta di riferimento “unica e sacra”.
Ma se le sfide che Trump deve affrontare sono ben individuate, le misure che il presidente Usa ha varato per contrastare queste emergenze sono ritenute da molti osservatori non solo incomprensibili, ma anche autolesioniste. Tuttavia, appare troppo facile archiviare queste misure come semplice frutto di una mente perversa. Anche perché, forse, una chiave di lettura della strategia trumpiana esiste ed è basata su uno specifico fattore: il tempo. Più in concreto, a Trump non interessa affatto cosa succederà all’America nei prossimi dieci-vent’anni. A lui ed al suo super-ego interessano solo due aspetti: cosa succederà da oggi alle elezioni di metà mandato di novembre 2026 (dove Trump rischia di perdersi per strada una Camera) e, più in generale, cosa succederà da qui al gennaio 2029 termine del suo mandato.
Ma se l’arco temporale di interesse è davvero questo, allora le misure varate da Trump iniziano ad assumere un senso. Più in particolare, sono tutte misure con due caratteristiche ben definite: da una parte, sono capaci di generare vantaggi immediati per l’amministrazione senza generare significativi contraccolpi di breve periodo. Dall’altra, sono capaci di spostare gli inevitabili contraccolpi strutturali (perdita di credibilità, perdita di fiducia da parte degli investitori, danni permanenti al tessuto produttivo etc) nel medio lungo periodo. Ora, in quest’ottica, i dazi rispondono benissimo a questa duplice mission. Generano cassa subito e, se gestiti come una clava, possono anche limitare le ritorsioni a danno dell’industria Usa.
Dunque, i dazi fissati a livelli privi di logica, le scadenze continuamente spostate per generare incertezza, le minacce ai Paesi su eventuali contro-dazi, gli avvertimenti di sapore mafioso sono tutte misure volte ad annichilire e disorientare gli avversari commerciali impedendo loro di reagire prontamente ai diktat commerciali. E poco importa se poi, nel tempo, l’inflazione rialzerà la testa e se alcuni settori dell’industria americana andranno in affanno a causa della difficoltà di approvvigionarsi di materie prime e semilavorati indispensabili alla produzione. Da non trascurare, inoltre, che anche la debolezza del dollaro, vista con favore da Trump, ben si sposa con il fattore tempo in quanto, stimolando l’export Usa e comprimendo l’import, esalta nell’immediato gli effetti dei dazi americani.
E poco importa a Trump ed al suo Super-Ego se nel medio lungo periodo il deprezzamento del dollaro, il più veloce dal 1973, possa mettere in discussione il ruolo di quest’ultimo come moneta di riserva e principale valuta di riferimento per le transazioni valutarie mondiali. Tra l’altro, con la conseguenza non secondaria di aprire la strada ad una coabitazione con altre monete di riferimento come auspicato, ad esempio, dai Paesi Brics. E, a ben vedere, anche la battaglia con il presidente della Fed Powell è legata a doppio filo al fattore tempo. Infatti, nonostante Powell finisca il suo mandato fra 10 mesi, Trump non ha esitato ad attaccare frontalmente la Fed sulla questione dei tassi.
E questo, al solito, perché l’amministrazione Trump ha bisogno di un abbassamento immediato dei tassi, non solo per stimolare una economia che nel primo trimestre 2025 ha evidenziato un Pil in discesa dello 0,5% rispetto al 2024, ma anche per ammortizzare possibili contraccolpi derivanti dal fronte dei dazi. E anche qui poco importa il fatto che sminuire il prestigio del presidente della Fed (per altro nominato dallo stesso Trump) vuol dire attentare all’indipendenza ed all’autorevolezza della Fed stessa e quindi, nel tempo, mettere in discussione la stessa credibilità dell’impalcatura finanziaria degli Stati Uniti.
L’unica consolazione è che, se è vero che Trump ha tutto l’interesse a portare a casa risultati immediati e tangibili in ossequio al fattore tempo, è anche vero che non ha alcun interesse a far “saltare il banco”, per cui, verosimilmente, accordi accettabili sui dazi e sulle altre questioni aperte verranno raggiunti. Anche perché Trump e l’inseparabile Super-Ego hanno capito che con le guerre lampo si vince, mentre, se ci si impantana si fa la fine di Putin in Ucraina. Con la piccola differenza che Putin, di fatto, non deve rispondere ad un elettorato e Trump, almeno per il momento, si.