Tra tribalismo, geopolitica e interessi strategici, la Siria si ritrova a essere campo di battaglia tra potenze e minoranze. Israele interviene a difesa dei drusi, storici alleati nella regione, mentre la nuova amministrazione americana tenta di bilanciare Ankara e Tel Aviv per evitare un nuovo disastro siriano
Un nuovo – anche se prevedibile – fattore sta animando la dinamica geopolitica del Medio Oriente. Si tratta del conflitto fra il nuovo governo siriano e le forze, soprattutto aeree israeliane, conseguente agli scontri fra le varie tribù druse, abitanti in Siria, e l’esercito siriano supportato da milizie sunnite e beduine.
Un dibattito si è acceso sulla natura dei drusi e sul perché Israele stia intervenendo in loro aiuto, malgrado gli sforzi della diplomazia, soprattutto americana, di stabilizzare la nuova Siria e con essa il Medio Oriente.
I Drusi sono complessivamente circa 800.000, di cui 350.000 in Siria, 250.000 in Libano e 120.000 (143.000 dopo l’occupazione da parte israeliana nel 1967 delle alture di Golan), a cui va aggiunta una diaspora tra cui 60.000 persone residenti negli Usa.
A differenza degli altri arabi del Medio Oriente hanno avuto sempre buoni rapporti con i cristiani maroniti e anche con Israele. Ai drusi che si trovarono nel 1948 nei confini stabiliti dall’Onu per Israele, fu concessa sin dall’inizio la cittadinanza e previsto il servizio pubblico, incluso quello militare, settore in cui i drusi hanno da sempre rivelato notevoli capacità.
La cacciata degli Assad e la presa del potere da gruppi ex-jihadisti, facenti capo a al-Shara’a, ha rivoluzionato la geopolitica del Medio Oriente, anche per l’irrisolto conflitto a Gaza e fra l’Iran e l’Arabia Saudita, nonché per l’“entrata a gamba tesa” di Donald Trump nelle questioni medio-orientali nella speranza di dare, con gli “Accordi di Abramo” e con la pacificazione con la Siria, una soluzione agli assetti regionali, proteggendo accordi di pace con la potenza militare di Israele e stabilizzando le monarchie del Golfo con il congelamento del conflitto fra Israele e i palestinesi, in particolare facendo cessare le stragi di Gaza, che – con il loro orrore – ne mettono a dura prova la stabilità.
I drusi, considerati eretici e filo-occidentali dai musulmani, hanno reagito unitariamente agli attacchi subiti in vari Paesi e, soprattutto, in Siria hanno trovato il sostegno dello Stato ebraico. In proposito, occorre considerare che storicamente oltre alla politica della solidarietà e del soccorso reciproco, le tribù druse hanno sempre ricercato l’aiuto delle altre minoranze etnico-religiose e tribali contro i tentativi centralizzatori degli imperi e regimi che si sono susseguiti nella regione.
Per difendersi dalle persecuzioni dell’Islam sia sunnita che sciita, le varie tribù druse che mantengono forti legami anche transfrontalieri, abitano nelle zone montane della Siria settentrionale e nord-orientale (quest’ultima occupata da forze filo-turche), del Libano e nel nord di Israele, incluse le alture del Golan e la “zona-cuscinetto” ad esse contigua. Entrambe sono considerate indispensabili da Israele non solo per il timore che il nuovo “regime di transizione” siriano post-Assad, improvvisamente sostenuto dagli Usa all’inizio dello scorso mese di marzo, possa ridivenire un pericolo per la sua sicurezza. Va aggiunto il sospetto israeliano che la nuova Siria diventi un protettorato turco, vanificando le ambizioni di Israele di superiorità geopolitica nell’intero Medio Oriente.
Per quanto riguarda la politica di Trump, essa ha stupito gli altri paesi per i suoi repentini cambiamenti. In un primo tempo, tutti erano persuasi che il presidente americano volesse stabilizzare la Siria per renderla idonea ad accedere ai c.d. “Accordi di Abramo” con Israele. Era opinione comune che gli Usa volessero utilizzarli come strumento principale per mantenere la pace fra Israele e gli Stati Arabi, nonché la stabilità del “fronte sunnita” anti-Iran. Invece, la politica americana appare molto più articolata sia per la stabilizzazione della Siria sia per la pacificazione nel Medio Oriente. Essa mira, infatti, a realizzare una stabilità nella Siria attraverso un equilibrio di potere nel paese tra Israele e la Turchia considerati entrambi essenziali per la pacificazione dell’intera area e il suo inserimento nell’economia americana. D’altronde, l’accesso della Siria agli “Accordi di Abramo” presenterebbe notevoli difficoltà data l’esistenza di numerosi contenziosi territoriali con Israele.
Per quanto riguarda la Turchia, la sua politica nei riguardi della Siria presenta una considerevole continuità rispetto al passato. Ankara intende esercitare una sovranità pressoché completa su tutto il Nord del paese in cui è concentrata la minoranza curda.
La politica di Israele che lo induce al sostegno dei drusi siriani contro gli attacchi del nuovo “governo di transizione” di al-Shara’a ha diverse motivazioni. In primo luogo: Israele persegue la sua politica di ridurre la Siria a Stato federale bloccato dall’esistenza di varie minoranze. Secondo: Israele ritiene necessaria, per la sua sicurezza, l’esistenza non solo del possesso delle colline del Golan, ma anche della zona cuscinetto che prolunga la sua presenza più a Nord. In altro luogo, il governo israeliano vuole mantenere il consenso dei circa 190.000 drusi che abitano nel suo territorio. Ritiene tanto importante il raggiungimento di tali obiettivi da sfidare gli Stati Uniti che perseguono invece un rafforzamento della Siria riducendo il potere delle sue varie minoranze. Comunque, è probabile che i siriani non rinuncino alla loro tradizionale centralizzazione statale, opponendosi all’occupazione sia israeliana che turca di parti del loro territorio. Respingeranno, quindi, le proteste del governo israeliano a quello di Damasco per non aver saputo o voluto proteggere le comunità druse abitanti nel suo territorio. L’esercito siriano, appoggiato da milizie sunnite di beduini, ha ripetutamente attaccato i drusi a partire da marzo 2025. I tentativi di accordi di pace, sponsorizzati dagli Usa, sono regolarmente falliti dopo pochi giorni, per il potenziale di odio atavico esistente fra le varie comunità e tribù e per le difficoltà del governo di Damasco di controllarle, anche per il timore di perdere il consenso di cui gode e per il fatto che l’eliminazione delle tensioni e delle sanzioni con gli Usa devono ancora dare i loro frutti. Realisticamente, un accordo è difficile perché la comunità drusa dovrebbe rinunciare all’autonomia, che ritiene essenziale per la sua sicurezza – se non per la sua sopravvivenza – mentre gli Usa e Israele dovrebbero rivedere integralmente la loro strategia per il Medio Oriente. È quindi probabile che – nonostante tutti i comunicati sui successi degli incontri diplomatici – non se ne faccia molto e che il conflitto druso-siriano – con i suoi alti e bassi – continui, cercando di calmare le opinioni pubbliche occidentali con progetti fantasmagorici, simili a quello israelo-palestinese dei “due popoli, due Stati”, o di una pacificazione fra Iran e Arabia Saudita. Insomma, è probabile che la situazione rimanga congelata e che, in assenza di eventi del tutto nuovi, continui un conflitto a fasi alterne di bombardamenti e negoziati.