Il muro del Cairo è, nella sua materialità, la più drammatica e inoppugnabile dimostrazione di ciò che in molti fingono di non vedere: la questione palestinese non interessa più al mondo arabo. È diventata uno strumento utile solo per logorare Israele. Nessuno vuole risolverla. E il muro ne è il simbolo perfetto
Mentre la comunità internazionale si divide sul futuro di Gaza e sul riconoscimento dello Stato palestinese, l’Egitto ha scelto una strada molto più concreta e definitiva: un muro. Un muro alto, spesso, sorvegliato e tecnologicamente avanzato. Un muro che segna non solo il confine tra Egitto e Striscia di Gaza, ma anche, in senso simbolico, quello tra il mondo arabo e la causa palestinese. Ed è un muro che parla chiaro: il Cairo vuole lasciare i problemi esattamente dove sono, cioè al di là del muro.
Il nuovo sistema fortificato egiziano si sviluppa lungo i circa 14 chilometri del confine meridionale della Striscia. A differenza delle vecchie barriere, spesso artigianali o temporanee, questa volta si tratta di un’infrastruttura permanente. Il muro ha una struttura in cemento armato profondo diversi metri nel sottosuolo, progettato per impedire ogni tentativo di tunnel, e si sviluppa in superficie con pannelli in acciaio rinforzato, sensori sismici, telecamere termiche e droni di sorveglianza continua. Le forze armate egiziane hanno rafforzato l’intera area con pattuglie permanenti, checkpoint blindati e zone di esclusione ben delineate, vietando l’accesso a civili e mezzi non autorizzati. La costruzione è affiancata da un corridoio militare interno e da una buffer zone, ampia almeno 500 metri, completamente evacuata da anni.
Questo dispositivo rappresenta la fine dell’epoca dei tunnel, che per decenni hanno costituito la linfa vitale dei traffici, spesso illeciti, tra Gaza e il Sinai: armi, uomini, carburante, sigarette, beni di prima necessità. L’esercito egiziano ha fatto saltare in aria centinaia di cunicoli, alcuni lunghi oltre un chilometro e dotati di carrelli su rotaia. L’Egitto ha chiuso, fisicamente e politicamente, ogni varco. Ed è una decisione che porta con sé un significato geopolitico potentissimo.
Non è solo questione di sicurezza – che pure per il Cairo resta prioritaria, soprattutto dopo gli attacchi jihadisti subiti nel Sinai – ma di strategia. L’Egitto, come gran parte del mondo arabo, ha ormai adottato un atteggiamento di distacco freddo e calcolato verso la causa palestinese. Nessuno Stato arabo vuole davvero farsi carico del problema. E anzi, più il problema resta nelle mani di Israele, più Israele si logora sul piano politico, morale e militare. È una posizione cinica, ma perfettamente razionale per chi la osserva dalla prospettiva egiziana, saudita o emiratina.
Il muro al confine con Gaza è dunque molto più di un’opera di difesa: è una scelta politica ben precisa. L’Egitto, il Paese arabo più popoloso e storicamente più coinvolto nella questione palestinese, si tira fuori. Non vuole profughi, non vuole responsabilità, non vuole confronti. Preferisce gestire i legami con Israele e con gli Stati Uniti, anche a costo di esporsi alle critiche pubbliche. Perché in fondo sa – e lo sanno anche gli altri leader arabi – che non esiste più un vero progetto di integrazione regionale dei palestinesi. Anzi: il silenzio delle capitali islamiche dopo il 7 ottobre è la conferma che la solidarietà araba è una formula logora, buona per qualche dichiarazione di rito ma priva di conseguenze pratiche.
Tutti i numeri del muro
L’Egitto ha edificato una barriera militare definitiva al confine sud con Gaza: lunghezza stimata fra i 12 e i 14 km, altezza fino a 7 metri in superficie e profondità sotto terra fra i 6 e i 18 metri. Si tratta di un’opera in cemento armato e pannelli d’acciaio rinforzato, dotata di sensori elettronici, telecamere a visione termica, sistemi d’allarme e sorvolo continuo di droni.
La costruzione è iniziata nel 2009 con un muro metallico profondo fino a 18 metri, poi aggiornata nel 2020 con un nuovo tratto in calcestruzzo armato tra Kerem Shalom e il valico di Rafah. Questo nuovo muro è alto 7 metri, dista solo 8 metri dalla barriera precedente, e integra un sistema di sensori e torrette di osservazione. Le tecnologie impiegate sono simili a quelle israeliane: controllo termico notturno, radar da terra e droni per ispezione continua.
Sul fronte della sicurezza il Cairo ha dispiegato “diverse centinaia” di militari – parte del corpo delle Guardie di Frontiera (stimato in circa 25 000 effettivi su tutto il perimetro nazionale). Le unità presidiano checkpoint blindati, pattugliano zone evacuate e mantengono la buffer zone di circa 500 metri.
Il piano egiziano ha previsto la demolizione di oltre 1 600 tunnel sotterranei e più di 1 200 abitazioni nell’area di Rafah, con uno stanziamento parziale da 70 milioni di dollari solo per la prima fase dell’evacuazione. Il costo stimato della barriera è di centinaia di milioni di dollari.
Tabella di sintesi
Questa barriera non è soltanto una risposta tecnica alla minaccia dei tunnel: è una separazione definitiva. E la fine dell’era dei cunicoli sotterranei è anche la prova evidente di una scelta politica ed esistenziale: l’Egitto si ritrae. Murando la frontiera, dichiara che non intende più farsi carico di Gaza. Nessuna responsabilità verso i palestinesi, né volontà di accoglierli. Tutto viene lasciato nelle mani di Israele, mentre il mondo islamico – Egitto in testa – taglia ogni ponte.
Il muro del Cairo è, nella sua materialità, la più drammatica e inoppugnabile dimostrazione di ciò che in molti fingono di non vedere: la questione palestinese non interessa più al mondo arabo. È diventata uno strumento utile solo per logorare Israele. Nessuno vuole risolverla. E il muro ne è il simbolo perfetto.