Bruxelles è andata incontro agli Stati Uniti senza una strategia, pensando solo al male minore. Il vero danno, più che economico, è reputazionale. Ora bisogna darsi una svegliata e ripartire dalle proprie potenzialità, cominciando dalla creazione di un vero mercato unico. Intervista a Rosario Cerra, fondatore del Centro economia digitale
Dalla Scozia con tante domande e qualche fantasma. L’accordo tra Donald Trump e Ursula von der Leyen raggiunto a Glasgow e che poggia su dazi al 15% per le merci comunitarie in ingresso negli Usa, con annessi 600 miliardi di investimenti negli Usa e 750 miliardi di acquisti in energia, specialmente Gnl, ha un che di chiaroscuro. Per la Francia è un gioco al ribasso, per l’Italia è tutto sommato accettabile se non altro perché sostenibile per le imprese nazionali. Le scuole di pensiero nel Vecchio continente sono, insomma, essenzialmente due. C’è chi crede che non ci fosse scelta, e che con gli alleati americani alla fine bisogna pur sempre negoziare. E chi, invece, pensa che l’Europa poteva, anzi doveva, tenere il punto e strappare condizioni migliori.
Di sicuro rimangono dei punti dell’intesa che vanno chiariti e che terranno impegnati gli sherpa nelle prossime settimane, visto che un testo ufficiale ancora non è stato diffuso. Tra i tasti più dolenti, per l’Ue, certamente figura quello dell’acciaio e dell’alluminio. Per gli Usa non cambierà nulla, quindi resteranno al 50%, ma a Bruxelles assicurano che la partita non è ancora chiusa. E poi la web tax, la tassa sui colossi della rete che per Trump era una delle condizioni sine qua non. In molti sono convinti che l’Europa l’abbia sacrificata sull’altare dei dazi (l’imposta, tanto per chiarire, non ha fatto nemmeno in tempo a entrare in vigore) e questo nonostante da Bruxelles abbiano subito chiarito che un impegno preciso con Washington non è stato preso né tanto meno formalizzato. Formiche.net ne ha parlato con Rosario Cerra, fondatore del Centro economia digitale.
Quello di Glasgow è un buon accordo per l’Europa secondo lei?
Dal mio punto di vista no o almeno non è il massimo. Mi sembra molto una resa alla trumpatologia, è mancato da parte dell’Europa un percorso, una road map, una consapevolezza. Bruxelles è andata incontro agli Stati Uniti senza una strategia, pensando solo al male minore. Tanto è vero che il punto centrale non è il valore del dazio in sé, ma il fatto che abbiamo implicitamente accettato la logica strategica imposta dagli Stati Uniti di Trump. È questo il vero errore.
C’è chi fa notare come il male minore sia di per sé già un risultato…
Lo è, se non altro perché tranquillizza i mercati. Ma la domanda che mi pongo è: davvero con questo accordo siamo sicuri che si ridurrà l’incertezza che finora ha attanagliato l’economia? Davvero pensiamo che nonostante l’intesa e il permanere di Trump alla Casa Bianca il mondo troverà la sua stabilità? Io qualche dubbio ce l’ho, forse ci stiamo illudendo, forse ci stiamo affidando al fato, quando dovremmo darci tutti una svegliata.
Proviamo ad arrivare a una prima conclusione. Sono stati bravi gli Stati Uniti o l’Europa che se l’é giocata male?
Direi la seconda. Nel senso che Trump ha fatto la sua partita e l’ha fatta alle sue condizioni, in modo muscolare. E noi abbiamo accettato una richiesta unilaterale ma senza avere un’idea di strategia, di rotta. Vede, l’Europa ha risposto con eccessiva prudenza e frammentazione, rinunciando agli strumenti che essa stessa aveva costruito: dal meccanismo anti-coercizione alla politica industriale comune. Non è vero che Bruxelles non abbia la forza per reagire, ma finora ha scelto, semplicemente, di non esercitarla.
Chi gestisce la politica commerciale europea non usa tutte le armi di cui dispone?
Cedere può essere razionale, ma farlo senza una chiara strategia è rovinoso. Se l’alternativa alla guerra commerciale diventa la subordinazione, significa che manca una terza via: quella di un’Europa che si pone come potenza economica autonoma. Mario Draghi lo ha espresso chiaramente, d’altronde. E poi c’è un altro problema: l’Ue risponde ai suoi stessi governi, non c’è dunque mai una compattezza di fondo e questo è un primo freno.
In questi giorni di negoziati si è parlato molto di web tax. Per qualcuno la tassa sulle big tech è stata sacrificata nel nome dell’accordo. Ammesso e non concesso che sia andata veramente così, lei che ne pensa?
Era giusto metterla sul tavolo dei negoziati se fosse sussistita una strategia, quella di cui abbiamo parlato poc’anzi. Quando si tratta la prima cosa che bisogna avere chiara è quali siano i limiti della negoziazione: quello minimo e quello massimo. Ecco, questa percezione è pressoché totalmente mancata da parte dell’Europa. Europa che adesso dovrà per forza di cose ritrovare se stessa.
Già, ma come?
Ci sono almeno tre azioni dalle quali ripartire. Rilanciare la dimensione multilaterale e commerciale attraverso nuovi accordi strategici con Mercosur, India, Asia-Pacifico e Africa, creare un autentico mercato unico dell’innovazione, con regole semplificate, risorse comuni e strumenti rapidi e accessibili per le imprese tecnologiche europee e difendere con determinazione la propria sovranità tecnologica, promuovendo un patto industriale euro-atlantico basato sulla reciprocità e sulla coopetizione, non sul protezionismo. Senza queste iniziative resteremo vulnerabili a ulteriori pressioni future, magari in tema di regolamentazione digitale, intelligenza artificiale o cybersicurezza. Il rischio, lo ribadisco, non è solo economico: è geopolitico.
Parliamo delle imprese e dell’impatto di questo accordo sull’economia. Che cosa ci dobbiamo aspettare?
Dipende, c’è ancora molta confusione, non sono chiari molti passaggi dell’accordo. Sicuramente un colpo arriverà, ma personalmente non mi aspetto un danno catastrofico. Il vero danno è reputazionale, alle prossime trattative noi partiremo con un alone di sfiducia. Il danno reale, vero, è la mancanza di credibilità.
Lei ha parlato di darsi una svegliata…
Come ho detto, l’alternativa esiste e l’Europa dispone ancora di tutti gli strumenti necessari: competenze, industria, risorse finanziarie e visione. Ciò che manca è il coraggio di usarli. E il tempo per farlo è ora.
Il governo italiano ha paventato la possibilità di mettere a terra forme di sostegno alle imprese colpite…
Deve essere una situazione di vera emergenza. Se passa il messaggio che ogni volta che c’è un dazio scatta un ristoro allora non aiutiamo le aziende a crescere. O è una vera emergenza o almeno ragioniamoci.
L’Europa dopo Glasgow. Titolo, svolgimento, tema.
Non benissimo. Ma ci sono tutte le condizioni per ottenere risultati a livello economico. Dobbiamo capire che non è che tra quattro anni, quando Trump non sarà più presidente, allora l’Europa sarà salva. No, l’Ue se vuole sopravvivere deve lavorare su se stessa, a prescindere dall’inquilino della Casa Bianca. È il momento di cominciare a scrivere nuove regole, insieme. Non per orgoglio, ma per qualcosa di ben più importante: la nostra autonomia, la nostra sicurezza e la nostra stessa capacità di sopravvivere come sistema economico e politico indipendente.