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Guerra commerciale formato ibrido e sguardo verso l’Alaska. Le trattative Usa-Cina secondo Pelanda

Con ogni probabilità non ci sarà nessun accordo strutturale nelle prossime ore, semmai una proroga nei negoziati, destinati a durare mesi. E così la guerra commerciale diventerà meno muscolare e più discreta. D’altronde, sia Trump, sia Xi hanno le loro ragioni per non cedere terreno. L’Europa? Non è stata una vittoria americana. Intervista all’economista e saggista Carlo Pelanda

Proroga o non proroga, questo è il problema. A poche ore dalla scadenza della tregua tariffaria di 90 giorni, siglata sul finire della primavera, tra Stati Uniti e Cina torna la tensione. Il termine è fissato per domani 12 agosto, ma le due potenze economiche devono ancora annunciare un’ulteriore moratoria sui dazi. Dopo l’ultimo incontro bilaterale a Stoccolma a luglio, Pechino aveva mostrato un certo ottimismo, affermando che entrambe le parti avrebbero lavorato per estendere la pausa tariffaria di altri tre mesi.

I negoziatori statunitensi, tuttavia, avevano avvertito che l’ultima parola sarebbe spettata comunque al presidente statunitense, Donald Trump, il quale finora non si è sbilanciato sull’eventuale proroga. Certo, i mercati sembrano ottimisti, come dimostra la generale chiusura in rialzo delle borse asiatiche. Ma è altrettanto vero che senza un accordo duraturo, i dazi per i due Paesi potrebbero tornare a livelli proibitivi: ad aprile Trump aveva fissato le tariffe sulla Cina al 145% spingendo Pechino a reagire con tasse di ritorsione del 125%. Volendo però allargare lo spettro, che cosa bisogna aspettarsi nei prossimi mesi? Una guerra commerciale ibrida o, peggio, strisciante e magari contagiosa? Formiche.net ne ha parlato con l’economista e saggista, Carlo Pelanda.

Pelanda, manca poco alla scadenza della tregua tariffaria tra Usa e Cina. Che sensazioni ha?

La mia sensazione, sulla base delle evidenze raccolte, è che Stati Uniti e Cina continueranno a negoziare, per mesi. Ci sarà una prosecuzione delle trattative, dando vita a una sorta di guerra commerciale più silenziosa, quasi vischiosa.

Perché pensa che un accordo strutturale non sia ancora a portata di mano?

Perché la Cina da parte sua ha bisogno di far vedere al mondo che non è inferiore agli Stati Uniti, è quasi una questione morale. Vede, a Pechino conta molto l’immagine, è quasi fondamentale. E poi in Cina sono molto preoccupati per l’incontro tra Trump e Putin in Alaska. Gli Stati Uniti, da parte loro, non vogliono cedere su molti capitoli commerciali e lo stesso Trump ha bisogno di portare qualcosa alla base elettorale Maga. Per questo si andrà avanti a oltranza, ma forse in modo più silenzioso, discreto.

Insomma, un pezzo di guerra commerciale sta cambiando pelle. O quasi…

In un certo senso sì. Se non altro perché un accordo tra Usa e Cina che soddisfi ambedue le potenze non è ancora vicinissimo. Per le forze poc’anzi citate: l’onore pubblico di Pechino, le ragioni elettorali di Trump.

Spostiamo l’attenzione in Europa. C’è chi vede nell’intesa con gli Usa di fine luglio, una vittoria americana. Per giunta netta.

Non è così. Non parlerei di vittoria o sconfitta. Trump sta facendo il suo programma promesso ai suoi elettori e l’Europa ha operato per un cedimento pragmatico. In altre parole, ha scelto il male minore, evitandosi guai ben peggiori.

Forse però l’Europa aveva più bisogno degli Stati Uniti di quanto essi dell’Ue. Lei che dice?

Se le dicessi che è vero anche il contrario? Guardi che nella sostanza, il Vecchio continente è più forte dell’America: ha diversi gap positivi rispetto a Washington, sia nel campo politico, sia tecnologico, quindi parlare di vincitori e vinti mi pare decisamente affrettato. Ognuno, alla fine, ha portato a casa il suo risultato.

Ciò non toglie che l’Europa debba comunque guardarsi attorno.

Certamente, e qui allora il suggerimento è quello di diversificare l’export. Ovvero guardare ad altre sponde commerciali, nuovi mercati. Con o senza Stati Uniti, sempre meglio avere un piano B. Mi preoccupa, semmai, una certa dottrina economica americana.

In che senso?

Il problema del riequilibrio esiste, i numeri dell’economia americana sono fuori controllo e un riaggiustamento ci deve essere, ma la soluzione non sta nel metodo Trump. La dottrina americana in materie economica è troppo veloce e per questo risulta spesso indigesta ai mercati e alle altre economie. Gli Usa cercano un nuovo equilibrio e hanno le loro ragioni, ma se lo fanno troppo velocemente e in modo talvolta disordinato, rischiano di fare danni peggiori.


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