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Presidenziali Usa, tra Wall Street e Zuccotti park

Le democrazie moderne hanno sempre offerto il fianco a una critica specifica: i cicli elettorali possono influenzare eccessivamente – dunque in peggio – il processo decisionale. L’osservazione è fondata, e due sviluppi tecnologici hanno acuito il problema negli ultimi anni: da una parte, i flussi di informazioni e i media a getto continuo hanno compresso i tempi della comunicazione (e dunque della decisione) e reso quasi permanenti le campagne elettorali; dall’altro, i mercati finanziari (e le famigerate agenzie di rating) interferiscono pesantemente con le decisioni sovrane e impongono una logica di breve o brevissimo termine.
Questi meccanismi saranno in tutta evidenza nella campagna presidenziale (e congressuale) americana del 2012, che incarna più di ogni altra competizione elettorale l’intreccio tra politica, comunicazione “24/7” e finanza.
 
La condizione di forte indebitamento del governo federale degli Stati Uniti può rendere il processo democratico ancora più vulnerabile a influenze esterne (perfino straniere, se si pensa all’esigenza di collocare massicci quantitativi di titoli del debito pubblico sui mercati internazionali).
È anche vero però che, rispetto a molti altri Paesi, il sistema americano gestisce la questione delicata del rapporto tra politica, media e denaro in modo relativamente trasparente. Ciò detto, resta la legittima preoccupazione che la volontà dell’elettore sia quasi svuotata se i rappresentanti eletti sono di fatto imprigionati da forze ben più potenti di loro.
 
È chiaro che a Washington l’amministrazione Obama gode di piena legittimità democratica, ma a volte si è avuta la sensazione che molte scelte cruciali siano state “obbligate” dagli eventi, come quando, nel discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2010, il presidente stesso affermò con amara ironia che gradiva il dover procedere al bailout delle banche quanto una “cura dentale canalare”.
È sembrata quasi una sospensione dell’esercizio di quel normale margine di azione discrezionale che dovrebbe essere l’essenza stessa della politica: il leader è normalmente colui che, senza “vincolo di mandato”, identifica l’opzione migliore tra le varie possibilità. Se è invece vittima di forze impersonali e incontrollabili, il suo legame con il cittadino comune viene stravolto.
 
Proprio il timore di una specie di abdicazione o di un asservimento della politica ha trovato espressione tanto nelle proteste di Occupy Wall Street quanto in un movimento più strutturato come i tea party. La matrice progressista o conservatrice dei due movimenti può essere usata solo con cautela e in effetti non descrive adeguatamente la spinta che viene dall’elettorato, perché il contesto delle rivendicazioni è diverso dal passato: ora si mette direttamente in questione il ruolo del governo, più che reclamare nuove scelte governative. Viene contestata la legittimità morale delle autorità prima ancora che il merito delle decisioni.
Barack Obama si è imposto sulla scena politica con una piattaforma che puntava a superare in qualche modo le fratture ideologiche della tradizione americana, ma il paradosso è che ora si trova sfidato – potremmo dire al tempo stesso da sinistra e da destra – da movimenti che davvero superano gli schemi ideologici per attaccare l’autorità centrale di Washington. E questo fenomeno complessivo è legato strettamente al rapporto tra Stato (federale), finanza e comunicazione in tempo reale. Il che presenta poi una vera ironia della storia, per un presidente che secondo molti aveva come punto di forza la capacità retorica con uno stile “riflessivo” teoricamente adatto proprio a tempi di crisi e ricostruzione, e che ha condotto nel 2008 la prima vera campagna elettorale dell’era dei new media.
 
Per molti versi la situazione di Paesi grandi e piccoli (Usa compresi) rispetto alla finanza non è affatto nuova: le monarchie europee del Cinquecento e del Seicento, che diedero vita ai primi Stati “nazionali”, erano regolarmente a caccia di fondi privati per finanziare le proprie attività belliche (e la propria stessa sopravvivenza). Dunque erano in qualche misura ricattabili, e certo influenzabili, da grandi interessi e attori privati. Tuttavia, il problema dell’indebitamento massiccio si presenta oggi in un contesto economico più competitivo e con ritmi di evoluzione compressi dalle tecnologie.
In fondo, l’intera gamma di reazioni alla crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha oscillato tra i due corni di un dilemma: tecnocrazia (affidando ad esempio ai banchieri le politiche di “salvataggio” come priorità rispetto alla disoccupazione) versus populismo (lasciando libero sfogo alle proteste fiscali o alla linea del “no government” come passo ulteriore rispetto al “no big government”).
A rimanere schiacciato tra tecnocrazia e populismo è il processo deliberativo tipico delle democrazie moderne, fondato sulla responsabilità politica degli eletti verso gli elettori e i “pesi e contrappesi” (sia tra i poteri istituzionali sia nel rapporto di questi con i vari corpi intermedi della società civile). Il peso del governo si misura con la sua capacità, soprattutto in circostanze eccezionali, di esercitare efficacemente l’autorità sovrana: se questa è fortemente condizionata il quadro politico e sociale cambia, in direzioni che non conosciamo con precisione nell’esperienza delle democrazie occidentali.
 
È su questo sfondo molto incerto che si apre (a tutti gli effetti con le primarie repubblicane) la campagna presidenziale del 2012. La grande sfida per i candidati sarà quella di articolare un messaggio e una “visione” che in qualche modo incorpori l’irrinunciabile spirito americano della frontiera, cioè del superamento dei limiti, in un contesto di austerità e condizionamenti. Non sarà per nulla facile, e si faranno sentire tutte le pressioni a cui sono ormai sottoposti i governi ovunque nel mondo: spinta al decisionismo tecnocratico (con i relativi rischi per la legittimità e il consenso) e spinta populista anti-establishment (con i relativi rischi per la coerenza delle policy). Anche visto il ruolo comunque centrale dell’economia americana per le prospettive di una crescita globale più equilibrata, c’è da sperare davvero che il popolo e il governo degli Stati Uniti sappiano fare appello a tutto lo “smart power” di cui dispongono.


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