Lee cammina su una linea sottile: pronto a mettersi a disposizione e accettare compromessi pur di difendere l’alleanza, ma deciso a non mostrarsi debole
Il presidente sudcoreano, Lee Jae-myung, entrerà oggi per la prima volta alla Casa Bianca per un summit con Donald Trump, incontro segnato da tensioni sull’alleanza e dalle incertezze dell’ordine globale. Eletto a giugno dopo la rimozione del suo predecessore conservatore, Lee arriva negli Stati Uniti dopo una tappa a Tokyo: un incontro organizzativo con il premier giapponese, Shigeru Ishiba, per rafforzare la cooperazione bilaterale con qualche dubbio sugli Usa trumpiano. Contemporaneamente una delegazione speciale sudcoreana è volata a Pechino con un messaggio per il leader Xi Jinping — l’invito al vertice Apec di novembre. Mosse coordinate che chiariscono l’agenda di Lee a Washington: sicurezza, commercio e Corea del Nord, sullo sfondo dell’imprevedibilità di Trump.
La priorità resta la deterrenza. La Corea del Sud, che dipende dalla presenza militare americana, cerca rassicurazioni dopo i test missilistici nordcoreani. Trump dovrebbe spingere per un aumento del contributo sudcoreano al mantenimento dei 28.500 soldati Usa – forse fino a 10 miliardi di dollari – e per una maggiore spesa militare, in linea con la Nato. Ma Seul punta a non essere trascinata nel confronto tra Washington e Pechino, soprattutto su Taiwan. Sul fronte commerciale, un accordo recente ha evitato i dazi più pesanti sulle esportazioni sudcoreane, in cambio di nuovi investimenti da 350 miliardi di dollari, compresi progetti navali a Filadelfia — tema: il rilancio dello shipbuilding spinto dall’attuale amministrazione — che Lee visiterà dopo il summit.
Dietro la facciata pragmatica c’è un po’ di diffidenza. Trump in passato ha definito Seul una “macchina da soldi”, ha oscillato tra le clamorose aperture a Kim Jong-un durante il suo primo mandato e nuove e vecchie pressioni sugli alleati, alimentando scetticismo. Funzionari sudcoreani si sono preparati a un summit “senza sorprese”, come nota Victor Cha (politologo americano che ha servito come consigliere per la penisola coreana di George w. Bush), mentre Lee, durante il volo, ha studiato perfino “The Art of the Deal”, il libro che delinea anche la visione transazionale di Trump.
A Seul si teme che l’America First possa tradursi in “Korea Why”, dice una fonte che segue certe dinamiche, ossia si metta in dubbio la presenza di truppe e si chiede un impegno condizionato al contenimento della Cina. Il dibattito sulla “flessibilità strategica” – l’uso delle forze americane in Corea anche per crisi regionali – ne è esempio. Lee resiste, volendo mantenerle concentrate sulla deterrenza verso il Nord. Il generale Xavier Brunson, comandante della U.S. Korea Force, ha però invitato Seul a “essere più forte” per liberare risorse americane. Tra I corridoi di Washington si parla di riposizionamenti, segno della fragilità del momento.
Eppure resta spazio per l’ottimismo. Lee, come Trump sopravvissuto a un attentato, condivide l’idea di un dialogo graduale con Pyongyang e punta a costruire un rapporto personale che attenui le asperità con il presidente americano. Entrare nella cerchia di Trump, spesso governata da umori e lealtà più che da norme, potrebbe garantire concessioni su dazi e sicurezza. Ormai è chiaro agli interlocutori internazionali. La sosta a Tokyo ha inteso proiettare unità con Ishiba su difesa e commercio, mentre l’apertura a Pechino segnala la volontà di bilanciare l’alleanza americana senza alienare il principale partner economico. L’obiettivo è arrivare preparato a DC, mettendo sul tavolo possibilità di azione.
Il quadro riflette un più ampio riassetto asiatico. Le antiche rivalità tra Seul e Tokyo lasciano spazio a cooperazioni pragmatiche nei semiconduttori e nel commercio bilaterale (77,2 miliardi di dollari) grazie ai Camp David Principles creato da Joe Biden. Anche con la Cina prevale il calcolo: normalizzare i rapporti dopo anni di attriti. Tutto per attenuare l’incertezza legata agli Stati Uniti — che potrebbero anche essere protagonisti a loro volta di intesse pragmatiche con Pechino.