Skip to main content

L’incerto destino di Putin e le lezioni della storia. L’analisi di Polillo

Tra sorrisi e strette di mano, Putin ha ottenuto visibilità a Pechino. Ma dietro le apparenze, i simboli hanno parlato chiaro: la Cina celebra la propria ascesa, rievoca Mao e guarda a nuove alleanze, lasciando a Mosca un ruolo di contorno

Fossimo in Vladimir Putin non dormiremmo sonni tranquilli. In apparenza il suo tour cinese ha prodotto buoni risultati. Il Capo del Cremlino è stato al centro di numerosi colloqui bilaterali. Ha ottenuto quella visibilità che l’aggressione dell’Ucraina gli aveva tolto, confinandolo nei seppur larghi confini di Santa madre Russia e dei suoi più fidati Stati satelliti. Un buon colpo, dopo l’apprezzata passeggiata nella base militare di Anchorage, con tanto di tappeto rosso e strette di mano da parte di Donald Trump.

Senonché nella cultura cinese i simboli sono essenziali. Fanno parte di quella comunicazione sublimale che è spesso più importante e veritiera del linguaggio parlato. Durante il periodo più feroce del maoismo alcuni crimini davano luogo a condanne a morte, eseguite con un colpo di pistola alla nuca. Nel restituire il cadavere alle famiglie del giustiziato veniva richiesto loro il rimborso del costo del proiettile. Facile individuare il nesso di una simile barbarie: “colpire uno per educarne cento”.

Alla grande parata militare, Xi Jinping, che nei giorni precedenti si era sempre presentato con un sobrio completo all’occidentale (vestito blu, camicia bianca e cravatta) aveva indossato, seppure in una confezione di alta sartoria, la vecchia tuta militare di Mao Zedong, il cui gigantesco ritratto dominava Piazza Tienanmen. Il fondale che aveva fatto da sponda alla parata. Come interpretare quella scelta? Una semplice concessione alla retorica nazionalista? Il riaffermare una linea di continuità con un glorioso passato? Un semplice omaggio al Grande Timoniere?

Ovviamente tutte le interpretazioni sono possibili. Ma se la parata militare voleva essere, com’è stata, una dimostrazione di potenza ed un monito verso i nemici presunti o reali della Cina, allora quell’abbigliamento poteva avere un altro significato. Mostrare al mondo da dove la Cina era partita. E come quella nazione che fino a pochi anni fa era popolata quasi esclusivamente da contadini analfabeti, aveva raggiunto il vertice dello sviluppo tecnologico mondiale. Una storia indubbiamente potente. Dove non c’era solo il riformismo di Deng Xiaoping, bensì quel periodo travagliato in cui la Russia sovietica e la Cina rivoluzionaria avevano lottato per la conquista della propria supremazia.

Tutto era iniziato all’indomani del XX Congresso del Pcus. Quando in quel 26 febbraio 1956 Nikita Chruščëv, primo segretario del partito comunista, aveva denunciato il culto della personalità del suo predecessore, Iosif Stalin, aprendo così al processo di destalinizzazione. Per la verità durante il congresso vero e proprio si era parlato d’altro. Il Segretario del partito aveva illustrato la nuova strategia dei comunisti, basata sulla coesistenza pacifica e sulla possibilità di una via parlamentare verso il socialismo. Sennonché appena eletti, i nuovi dirigenti, erano stati convocati in una seduta segreta in cui Nikita Chruščëv aveva illustrato il famoso “Rapporto segreto” (“Sul culto della personalità e le sue conseguenze”) in cui, impietosamente, elencava le colpe ed i crimini di Stalin.

In un corpo politico dedito all’obbedienza, quello fu uno shock mortale. Assorbito, tuttavia, rapidamente per il riflesso di un’antica abitudine. Chi invece respinse al mittente non solo la critica nei confronti di un grande dirigente comunista, ma il nuovo indirizzo strategico uscito dal XX Congresso, furono proprio i cinesi, con alla testa Mao Zedong. In precedenza divergenze non erano mancate, ma erano rimaste chiuse all’interno dei relativi gruppi dirigenti, congelate dalle liturgie della Terza Internazionale. Che ressero ancora per qualche anno, finché nel 1959 il conflitto divenne pubblico.

E da allora fu come un torrente in piena. Con i sovietici che criticavano i cinesi per il loro avventurismo, figlio di una visione deviazionista e nazionalista. E questi ultimi che rispondevano tacciando Chruščëv di essere un revisionista e un dittatore. Polemiche destinate ad inasprirsi dopo la “Primavera di Praga”, del 1968. E l’invasione da parte dell’armata rossa della Cecoslovacchia che i cinesi giudicarono, con qualche ragione, essere l’azione tipica di un paese “social – imperialista”.

A sostegno di questo giudizio era tra l’altro la cosiddetta “teoria della sovranità limitata” che Leonid Brežnev, che nel frattempo aveva sostituito Chruščëv, aveva fatto intravedere a distanza di pochi mesi da quell’invasione. Enunciata il 13 novembre 1968, in occasione del quinto congresso del Partito Operaio Unificato Polacco, rivendicava il diritto da parte del Patto di Varsavia di intervenire nei Paesi satelliti nell’eventualità in cui la loro situazione politica fosse ritenuta non in linea. Tesi che aveva preoccupato enormemente i dirigenti cinesi, favorendo una loro apertura politica nei confronti degli Stati Uniti, secondo gli auspici più volte avanzati da Henry Kissinger. Che tra i primi aveva visto quel varco che si era aperto nel monolite comunista.

Dati questi presupposti, il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi divenne quasi inevitabile. Gli scontri sui fiumi Ussuri e Amur, in Manciuria, durarono dal marzo al settembre del 1969. Furono, tuttavia preceduti, da una serie di incidenti diplomatici tra i due Paesi: con l’Urss decisa ad aumentare la pressione nei confronti dei propri ex alleati. Finché si contarono i primi morti da entrambi le parti, destinati ad alimentare propositi di rivincita. Alla fine le vittime furono poche centinaia. Ma le conseguenze politiche di quegli episodi furono devastanti. Dimostrarono al mondo che l’ideologia non era riuscita a contenere le contraddizioni del Mondo reale.

A distanza di tempo da quel lontano periodo non si può fare a meno di considerare come, alla fine, sia stata la strategia suggerita da Mao ad affermarsi. Allora la polemica all’interno del movimento comunista era su come portare avanti la lotta rivoluzionaria. Mentre i sovietici pensavano che si dovesse soprattutto difendere il Paese del socialismo realizzato. Cioè loro stessi. I Cinesi parlavano della necessità che le campagne accerchiassero le città, fino a farle cadere. Per conquistare un orizzonte planetario.

All’indomani del meeting di Tianjin e della parata militare di Pechino, con Xi Jinping che indossa la tuta militare, è facile vedere chi abbia vinto la partita. L’unica cosa che Vladimir Putin ha potuto ottenere é stato un ruolo importante, ma di secondo piano. Con il dragone più interessato a stringere un nuovo rapporto con l’elefante, (nonostante Narendra Modi avesse rifiutato di partecipare alla parata) piuttosto che curarsi troppo di un vecchio orso, che l’avventura in Ucraina aveva un po’ spelacchiato. Ed ecco allora che quel vestito verde-oliva acquista forse un significato particolare: non più un tributo verso il passato. Ma la proiezione verso un diverso futuro.


×

Iscriviti alla newsletter