Il Libano affronta insieme la devastazione della guerra, una crisi economica senza precedenti e l’ingombro di Hezbollah, che frena il ritorno alla sovranità nazionale. Mentre la politica discute di formule, i cittadini pagano il prezzo più alto. L’analisi di Riccardo Cristiano
Il Libano ha vissuto un’altra giornata surreale, senza il coraggio di un vero confronto politico sulla sua realtà e ciò di cui discutere, ma su una sorta di teatro dell’assurdo che offende i libanesi intrappolati in una tragedia che si chiama quotidianità. Dunque occorre ricostruire brevemente i fatti per spiegare cosa è accaduto ieri e cosa avrebbe dovuto accadere.
Hezbollah, cioè Partito di Dio, è un partito costruito in Libano con ingenti investimenti dal’Iran negli anni Ottanta. Il primo obiettivo è stato conquistare la linea di confronto con Israele che occupava il sud del Libano, sottraendola ai gruppi della sinistra libanese. Quella guerra contro l’occupante è diventata la ragion d’essere di Hezbollah, il partito della “resistenza”. Nel 2000 Israele si è ritirato dal Libano meridionale, ma la resistenza è rimasta in armi. Questo è stato il momento in cui il Libano ha perso la sua sovranità ed Hezbollah ha assunto in proprio il controllo della strategia nazionale di difesa al posto dello Stato, ha tenuto in piedi regimi stranieri e dichiarato guerre. Gli sviluppi bellici sono stati tantissimi, fino all’8 ottobre 2023, quando Hezbollah ha dichiarato una “guerra a bassa intensità” contro il nord di Israele che senza poter apportare alcun beneficio ai palestinesi mirava ad elevare la propria “leadership antagonista” e mettere all’angolo i Paesi arabi del Golfo, tradizionali rivali di Tehran, rafforzandone il ruolo regionale. Ma alcune operazioni di intelligence hanno consentito a Israele di entrare nel sistema di comunicazione interno di Hezbollah, infliggendogli un colpo mortale. La guerra che è seguita ha devastato il Libano meridionale e Beirut sud, i bastoni di Hezbollah, ma il conto l’ha pagato tutto il Libano, causando più di un milione di profughi interni; e il Libano era già piagato da una crisi economica senza precedenti e senza pari al mondo. La valuta libanese che per trent’anni era stata cambiata a 1500 contro il dollaro dal 2020 è precipitata intorno a quota 100mila. Il governo, legato a Hezbollah, aveva scelto di sfidare le istituzioni internazionali e scelto di dichiarare il default per non legarsi alle richieste del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Non negoziati dunque, ma rottura. Fmi e Banca Mondiale non propongono certo il Vangelo, tutt’altro, ma il negoziato era possibile, portarlo in porto in quelle condizioni era questione di vita o di morte per i libanesi. Non per chi puntava tutto sulle armi pagate da Tehran.
La guerra del 2024 così ha aggiunto un conto pesantissimo sul disastro pregresso, per il quale anche gli avversari di Hezbollah hanno enormi responsabilità. A fine anno tutto il Libano, compreso Hezbollah, ha accettato il cessate il fuoco, che prevede da una parte il ritiro israeliano dal Libano dell’esercito israeliano e dall’altro il disarmo di Hezbollah, come già previsto da due risoluzioni Onu, la 1559 e la 1701. Israele ha accettato di ritirarsi ma lo ha fatto parzialmente, non da cinque punti “avanzati” nei quali tutt’oggi permane, l’esercito libanese ha cominciato il disarmo di Hezbollah senza concluderlo. La distruzione inflitta da Israele agli arsenali, alla leadership e alla catena di comando di Hezbollah è enorme. Ma al di là dell’interesse israeliano, a porre termine a questa anomalia c’è per Beirut soprattutto quello libanese: nessun Paese può consentire che sul suo territorio ci sia in armi un esercito che dipende da un Paese terzo. Il Libano vuole tornare un paese sovrano. E così il governo ha deciso ad agosto di incaricare l’esercito di presentare un piano operativo su come concludere il disarmo di Hezbollah. Ma i ministri di Hezbollah e dei suoi alleati sciiti (la confessione islamica che ritengono di rappresentare senza aver mai consentito ad altre forze di avere uno spazio politico) hanno contestato la decisione del governo, alla quale non hanno preso parte. Ieri è stato presentato il piano dell’esercito e i ministri di Hezbollah dopo aver discusso i punti precedenti all’ordine del giorno, tutti inerenti ai ministeri da loro gestiti, hanno abbandonato la riunione quando è arrivato il generale Haikal, comandante dell’esercito, pronto a leggere il suo piano operativo. “Sono discussioni che seguono decisioni illegittime”, hanno detto, sin qui senza però dimettersi dall’esecutivo e senza invocare la “mobilitazione della piazza” perchè hanno ottenuto che il comunicato ufficiale dell’esecutivo definisca “ben accolto” e non “approvato” il piano illustrato dal capo dell’esercito, che ha specificato le cinque fasi in cui si svolgerà l’operazione ma non le sue date: servono anche mezzi per completare il lavoro e non sono pochi. Ma la linea ufficiale di Hezbollah oggi qual è? Si rimangia il si al disarmo dato accettando il cessate il fuoco? Chiedono che prima delle loro armi si parli dell’occupazione israeliana, persistente e contravvenente il cessate-il-fuoco. Questo lo chiede anche il governo, ma con le pressioni diplomatiche e con la richiesta di sostegno ai grandi attori regionali e mondiali. Ma intanto intende procedere ugualmente al disarmo di Hezbollah, anche perché quelle armi che Hezbollah ancora ha non le usa per rispondere alle operazioni che Israele compie quotidianamente contro suoi operativi. E allora, per cosa le ha?
Hezbollah sa benissimo che i mutamenti politici accaduti in Siria le impediscono di ottenere nuove armi dall’Iran, questo accadeva con il regime degli Assad, ora non accade più. Dunque non può riarmarsi. Cosa ci deve fare con le armi che ancora ha? Da un lato si vede che si deve nascondere la realtà, cosa le proprie scelte hanno causato, e forse si colgono due intenzioni: condizionare e dare ancora una carta negoziale o di pressione all’Iran nei vari tavoli diplomatici nei quali è impegnato, soprattutto con gli Stati Uniti. Ma questo è un problema libanese?
Hezbollah avrebbe un’altra strada: diventare finalmente un partito libanese. Rifare il Libano non può essere fatto senza il contributo della comunità sciita che ha conti in sospeso per il suo passato sociale e per il suo futuro politico. Rifare la democrazia libanese, contribuire a costruire un assetto politico che superi il confessionalismo e crei un nuovo modello democratico, che contempli sia la tutela delle comunità e delle garanzie che tutte devono avere sia la valorizzazione degli individui che devono finalmente trovare il modo di vedersi riconosciuti come tali, sarebbe uno sforzo molto più importante del combattimento armato. Di questo il Libano avrebbe dovuto discutere ieri, di un nuovo futuro, non dei bizantismi di Hezbollah e dei suoi alleati.
Oggi la vera sfida è garantire i diritti di cittadinanza a tutti in Paesi complessi, multietnici e multiconfessionali. Questa è la partita politica e culturale che potrebbe rifondare il mondo arabo e mettere su basi completamente nuove la discussione sulla democrazia in Medio Oriente. Il Libano già oggi ha il grande privilegio di avere un’identità statale multiconfessionale, i deputati sono al 50% cristiani e al 50% musulmani e questo vuol dire moltissimo: ma quella così formata è la sola Camera, eletta solo su base confessionale, con quote predefinite tra le diverse comunità. Avere una seconda Camera eletta come si vota da noi, e come previsto dalla Costituzione, metterebbe il Libano all’avanguardia sul fronte decisivo; pluralismo, cioè garanzie per le comunità e diritti per gli individui . Questo sistema potrebbe aprire le porte a una discussione nuova, al decentramento amministrativo, perché il pluralismo è anche di territori abitati da individual di fedi diverse ma che quel territorio vivono insieme. Così le comunità non sarebbero più gabbie, ma polmoni di una classe dirigente che si forma insieme, non nei salotti delle grandi famiglie feudal che si sono impossessate delle comunità, formando una casta. E’ il percorso che prevede la Costituzione ma di cui non si parla. Sarebbe un modello regionale! Il Libano ha la posizione e le risorse per ripartire e per rinnovare la politica di quella landa desolata che oggi va da Beirut a Baghdad.
Questa sarebbe una vera sfida, difficilissima, ma affascinante. E’ questo che renderebbe protagonisti, sia gli sciiti che i cristiani che i sunniti o i drusi libanesi: protagonisti di un confronto politico reale su come ripartire dopo una guerra devastante, perché la sconfitta è militare, non necessariamente politica, se la politica tornasse ad essere tale.