Il ritiro di Unifil entro il prossimo anno apre a nuovi interrogativi sul futuro della presenza internazionale in Libano e sul ruolo dell’Italia. Il ministro Crosetto valuta un impegno nazionale per non lasciare un vuoto sul campo, ma il generale Camporini, intervistato da Airpress, avverte: l’Italia ha le capacità per coinvolgere altri partner, ma senza mandato chiaro e risorse adeguate, la missione potrebbe rivelarsi insostenibile
Le tensioni non accennano a ridursi in Medio Oriente. In Libano, nuovi incidenti hanno coinvolto la missione Onu Unifil, cui partecipano molti soldati italiani, e hanno riacceso il dibattito sul futuro della presenza internazionale nel Paese. Il Consiglio di sicurezza ha deliberato il ritiro della missione di peacekeeping entro la fine del prossimo anno, mentre il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha ipotizzato un impegno bilaterale italiano con Beirut per non lasciare un vuoto sul terreno. Airpress ne ha parlato con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa
Generale, negli ultimi giorni alcuni colpi sono esplosi vicino ai compound Unifil, nonostante fosse stata notificata la presenza dei caschi blu. Non è la prima volta che accade. Che valore dare a questi episodi?
Quando ci si trova in un teatro operativo ad alta tensione episodi del genere purtroppo possono accadere. Non necessariamente indicano una volontà aggressiva, ma spesso sono il risultato di incomprensioni, cicli di informazione non completati, o reazioni nervose a situazioni non previste. È chiaro però che il contesto rimane estremamente delicato, dal momento che la missione Unifil si muove in un ambiente dove i rischi sono elevatissimi e ogni minima frizione può trasformarsi in incidente. Questo rende sicuramente ancora più complesso il lavoro dei caschi blu.
Dopo questi episodi, l’Onu sembra intenzionata a porre fine alla missione Unifil entro la fine del prossimo anno. Come valuta questa prospettiva?
Esatto, questa è la decisione presa dal Consiglio di Sicurezza, che include Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. Se i cinque membri permanenti hanno deliberato in tal senso significa che, a loro giudizio, alcuni dei presupposti alla base della missione non sono più presenti. È un segnale politico molto chiaro. Chi ha il potere di veto ha preso atto che Unifil non risponde più agli obiettivi iniziali. Detto questo, la politica è fatta anche di cambiamenti di valutazioni, e non si può escludere che, alla luce dell’evolversi della situazione sul terreno, vengano prese decisioni diverse. In questo senso, le parole del ministro Crosetto mostrano consapevolezza della complessità e della fluidità del quadro.
Il ministro ha detto che l’Italia potrebbe valutare un impegno bilaterale con il Libano in caso di smobilitazione di Unifil. Sarebbe realistico per il nostro Paese?
Bisogna essere chiari: tutto dipende dal tipo di missione che si vuole portare avanti. Unifil oggi conta circa 15mila uomini, di cui un migliaio italiani. Se l’Italia restasse da sola con questo contingente, la capacità di incidere sul terreno sarebbe molto limitata. Con mille unità non si controlla un’area vasta e complessa come quella tra il fiume Litani e la cosiddetta “linea blu”. È quindi indispensabile chiarire fin dall’inizio quali sarebbero gli obiettivi. Se si trattasse solo di cooperazione simbolica o di addestramento, la cosa è sostenibile. Ma se la finalità restasse quella di interposizione e controllo, allora servirebbero numeri molto più elevati e risorse che, realisticamente, oggi l’Italia da sola non potrebbe mettere in campo per un tempo prolungato.
Crosetto ha parlato della necessità di rilanciare i forum multilaterali, in particolare l’Onu. Tuttavia proprio mentre se ne chiede il rilancio, si decide di chiudere una delle missioni di pace più longeve e note di sempre. È davvero possibile oggi immaginare un simile ritorno al multilateralismo?
In linea di principio il sistema multilaterale è l’unico strumento che consente di comporre conflitti e di arrivare a compromessi accettabili per tutte le parti. Senza un quadro multilaterale, infatti, prevalgono gli interessi unilaterali e la forza. Tuttavia, guardando al contesto attuale, vedo margini molto ridotti. Gli Stati Uniti non hanno una linea stabile, con la politica americana che cambia da un giorno all’altro, a seconda dell’umore del presidente. La Russia è impegnata ad affermare la propria sfera di influenza con l’uso della forza. La Cina, a sua volta, coltiva l’ambizione di presentarsi come ago della bilancia strategica. In queste condizioni il multilateralismo resta auspicabile, ma molto difficile da praticare. Le Nazioni Unite rimangono il luogo dove i Paesi possono parlarsi, ma il salto dalle parole ai fatti è quasi impraticabile oggi.
Il ministro ha usato un’immagine forte, quella dell’Idra, per descrivere il conflitto mediorientale: tagliata una testa dell’odio, ne ricrescono altre. Condivide questa visione?
Sì, la condivido pienamente. Quando si rifiuta a priori ogni compromesso, da entrambe le parti, si alimenta inevitabilmente la spirale dell’odio. Hamas da un lato e il governo israeliano dall’altro, in particolare la sua componente più radicale, rifiutano qualunque apertura. La prospettiva di annessione della Cisgiordania, dichiarata apertamente da vari esponenti della destra israeliana, è un esempio lampante. In questo scenario il terrorismo si rigenera e il terrore alimenta altro terrore. Non si tratta di stabilire chi abbia ragione o torto, ma i fatti dimostrano che la logica del “tutto o niente” porta soltanto a un’escalation senza fine.
Tornando alla possibilità di un impegno italiano in Libano: quali sarebbero le condizioni imprescindibili?
Un’eventuale forza di interposizione nazionale dovrebbe essere accettata da tutte le parti in causa. Senza il consenso del governo libanese, sul cui territorio opererebbe, e senza l’assenso israeliano, la missione sarebbe destinata a fallire. Se Israele percepisse l’iniziativa come ostile, la probabilità di incidenti aumenterebbe in modo esponenziale. È quindi indispensabile lavorare su accordi formali e sostanziali con Beirut, partendo dalla cooperazione già in atto, e ottenere garanzie di accettazione anche da parte israeliana. Senza queste precondizioni, una missione bilaterale rischierebbe di esporre i nostri militari a pericoli ingiustificabili.
Da anni si discute dell’efficacia del peacekeeping, dalle lezioni di Srebrenica in poi. Eppure, nonostante ciò, le missioni per il mantenimento della pace continuano a mostrare criticità. Che ne pensa?
La prima questione riguarda la chiarezza del mandato. Bisogna stabilire qual è la finalità: impedire a Hezbollah di riarmarsi? Se questo è l’obiettivo, servono mezzi e regole d’ingaggio adeguate. Finora Unifil ha operato con margini ristretti, senza reale possibilità di usare la forza. Così, però, la missione diventa inefficace. Inoltre non si può pensare di sostituire una forza di 15mila uomini con 2 o 3mila. I numeri devono essere proporzionati al compito. Altrimenti il fallimento è certo, e non sarebbe solo un peccato ma creerebbe un precedente gravissimo che peserebbe su tutte le future operazioni di peacekeeping. Per questo insisto che servono un mandato multinazionale forte, regole chiare e risorse adeguate. Diversamente, meglio non avviare affatto la missione.
L’Italia potrebbe avere la capacità di coinvolgere altri Paesi in un nuovo schema multilaterale?
Sì, e abbiamo già dei precedenti. L’attuale Unifil 2 nacque da un’iniziativa italo-francese, non in sede Onu. Solo in seguito fu portata alle Nazioni Unite, che le diedero il loro sigillo. All’epoca ricordo che dissi che fu una splendida occasione perduta per l’Unione europea. Se fosse stata un’iniziativa comunitaria e non il frutto della competizione tra Roma e Parigi, avrebbe avuto un impatto politico molto diverso. La storia forse avrebbe preso un’altra piega. Ma questo dimostra che l’Italia, quando agisce con determinazione e insieme ad altri partner, ha la capacità di aprire spazi diplomatici e militari importanti.