Il discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen ha posto al centro difesa e politica estera, con toni inediti. Per Mario Mauro, già ministro della Difesa, l’Europa deve prendere coscienza che la sfida con la Russia andrà oltre l’Ucraina e che senza strumenti comuni rischia di restare prigioniera di un ordine deciso da altri. Superare il veto, rafforzare l’autonomia industriale e preparare le nuove generazioni, queste sono le condizioni per un’Unione capace di contare nello scenario globale
Il discorso di Strasburgo sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen ha segnato una svolta nei toni e nei contenuti del momento istituzionale più importante dell’agenda comunitaria. Termini come difesa, politica estera, autonomia strategica sono stati al centro come mai prima d’ora. Un cambio di passo che riflette la nuova fase storica in cui si trova l’Unione europea, tra la guerra in Ucraina, le tensioni globali e il rapporto con gli Stati Uniti. Airpress ne ha parlato con Mario Mauro, già ministro della Difesa e parlamentare.
Il discorso di Ursula von der Leyen è stato largamente dedicato alla difesa e alla politica estera, con termini e toni ben diversi rispetto al passato. Cosa ci dice questo cambiamento?
Il fatto che von der Leyen abbia aperto dicendo che l’Europa “è in battaglia” è già un segnale fortissimo. È l’ammissione di una consapevolezza nuova, che viviamo in un tempo in cui la sicurezza dei cittadini europei è davvero in discussione. Dire che “viene la guerra” non significa essere guerrafondai, ma riconoscere che la Russia è oggi una minaccia oggettiva per la pace e gli equilibri internazionali.
Mosca vuole l’Ucraina non per ragioni storiche o propagandistiche, ma perché, come ha fatto più volte notare il professor Brzezinski, con l’Ucraina la Russia torna a essere un attore globale. Senza, resta confinata a potenza asiatica, subordinata alla Cina. Per l’Unione, avere Kyiv nella propria orbita significa rafforzare il progetto europeo e la sua autonomia strategica. È questo che la presidente ha voluto trasmettere, che non si tratta di un conflitto lontano, ma di una battaglia che riguarda il futuro di ogni cittadino europeo.
“Putin non si fermerà anche se la guerra dovesse finire”, ha detto von der Leyen. Pensa che la rivalità tra Russia ed Europa sopravvivrà anche a un eventuale cessate il fuoco?
Sì, proprio perché la posta in gioco va oltre l’Ucraina. Non siamo davanti a un conflitto episodico, ma a una sfida di lungo periodo tra la Russia e l’Europa. Anche se ci fosse un cessate il fuoco, la logica della contrapposizione resterebbe. L’Europa deve capire che non si tratta solo di difendere un confine, ma di preservare il proprio ruolo nello scenario globale. Il mondo oggi si divide tra chi vuole riconfermare Yalta — cioè l’assetto che lasciava Stati Uniti e Russia padroni del gioco — e chi, come Cina e India, vuole un ordine nuovo. Per questo la battaglia è prima di tutto culturale. Significa accettare che sicurezza e difesa sono priorità, se vogliamo garantire un futuro libero e prospero alle prossime generazioni.
L’Europa però a Yalta non c’era. Ecco perché l’Unione deve decidere cosa vuole diventare da grande, capire quale ruolo intende avere, dotarsi degli strumenti per esercitarlo e farsi percepire come un attore globale. Questo non significa solo più armi, ma capacità industriali comuni, infrastrutture sicure e resilienza interna. Senza, l’Europa resterà prigioniera di un assetto deciso da altri.
Von der Leyen ha proposto di superare il diritto di veto in politica estera e difesa. Crede che sia davvero possibile?
La questione tocca il cuore della costruzione europea. Da un lato c’è il modello intergovernativo, che tutela la sovranità degli Stati ma rallenta tutto; dall’altro il modello federale, che spinge all’integrazione ma genera timori di omologazione. L’Europa non può permettersi discussioni teoriche infinite: deve trovare un equilibrio pragmatico.
Durante la pandemia, decisioni che sembravano impossibili sono state prese perché il pericolo lo imponeva. Oggi la minaccia è geopolitica e altrettanto esistenziale. È questo che può spingere i governi a superare resistenze storiche. Servono immaginazione istituzionale e coraggio politico. Non per aderire a un ideale astratto, ma per difendere concretamente la sopravvivenza e la rilevanza dei Paesi membri e dare vita a un progetto nuovo.
Come nella teologia cattolica, si può andare in paradiso per amore di Gesù ma anche per paura dell’inferno e oggi è proprio la paura delle conseguenze geopolitiche a rendere necessario quel passo ulteriore che fino a ieri sembrava irrealizzabile.
La presidente ha parlato di una roadmap al 2030, di resilienza e di industria della difesa, introducendo un requisito “made in Europe” per gli acquisti pubblici. Ma gli Stati Uniti spingono in direzione opposta, chiedendo all’Europa di comprare americano. Come se ne esce?
Bisogna distinguere. Se la logica è semplicemente “fare ciò che chiedono gli americani”, allora sarebbe un errore. Negli ultimi decenni abbiamo rinunciato a sviluppare un’autonomia strategica comune e siamo diventati dipendenti dalle scelte industriali statunitensi. Ma un conto è comprare un’arma leggera, un conto è sviluppare tecnologie di nuova generazione. Senza ricerca e capacità industriale condivise, l’Europa si condanna all’irrilevanza.
Questo non significa abbandonare la relazione transatlantica, che resta vitale. Anzi, deve essere rafforzata, perché è l’unico strumento per difendere un ordine internazionale condiviso. Ma la partnership funziona solo se l’Europa porta al tavolo competenze e capacità proprie. Altrimenti rischiamo di trasformare un’alleanza in una dipendenza.
Alla fine, però, la vera risorsa restano le persone. Se i nostri giovani non crescono con la consapevolezza della sfida che abbiamo davanti, ogni sforzo industriale o politico sarà vano. La forza dell’Europa sta nella sua capacità di trasformare i valori fondativi in strumenti concreti di competitività e libertà.