Netanyahu cammina su un sentiero stretto: deve gestire l’interno, con proteste contro il suo governo, e l’esterno, con pressioni globali. Ma non è impraticabile. Se Bibi sfrutterà questa forza relativa, potrebbe trasformare la sconfitta del 2023 in una vittoria strategica duratura. Il Medio Oriente non è un salotto ideologico: è un’arena dove contano i fatti, non gli slogan. L’opinione di Roberto Arditti
In un Medio Oriente che brucia da decenni, i luoghi comuni europei sulla questione palestinese continuano a proliferare come erbacce in un giardino trascurato. Si sente parlare di “genocidio” israeliano, di “occupazione illegale” e di una narrazione pro-palestinese che dipinge Israele come il grande aggressore. Ma è ora di dirlo chiaro: questa visione, tanto cara a certi intellettuali e attivisti del Vecchio Continente, è irrilevante. Non perché manchi di passione, ma perché ignora la complessità della realtà sul terreno. Chi pontifica da Bruxelles o Parigi spesso non sa di cosa parla: non comprende le dinamiche di potere, le alleanze sotterranee e le minacce esistenziali che Israele affronta quotidianamente. La situazione è molto più complessa e meno ideologica di quanto si creda.
Ricordiamo i fatti, partendo dal principio. Il 7 ottobre 2023, Israele ha subito la più grande sconfitta militare e di intelligence della sua storia. Un attacco coordinato da Hamas ha causato oltre 1.200 morti e il rapimento di centinaia di ostaggi. La responsabilità ricade interamente sul governo di Benjamin “Bibi” Netanyahu, che ha sottovalutato i segnali e ha permesso una breccia fatale nelle difese del Paese. La reazione israeliana è stata durissima, come ben noto: una campagna militare a Gaza che ha provocato migliaia di vittime civili e una devastazione senza precedenti.
Oggi, nel settembre 2025, Israele vive una fase di grande impopolarità globale. Secondo un sondaggio Pew Research, la maggioranza delle persone in 24 Paesi ha una visione negativa di Israele, con percentuali che raggiungono il 78% nei Paesi Bassi e il 75% in Spagna. Questo vale anche per le comunità ebraiche diasporiche, che affrontano un’ondata di antisemitismo. Difficoltà si registrano in Europa, dove le proteste pro-palestinesi sono represse con durezza, ma anche in Sud America e Asia, con boicottaggi e condanne diplomatiche. Problemi con la Turchia, che accusa Israele di aggressioni, e con la Russia, che mantiene legami con Iran e Siria. Il prezzo pagato è altissimo: isolamento internazionale, danni economici e un tessuto sociale israeliano lacerato.
Ma qui sta il punto che solo gli stupidi o chi vive di preconcetti ignora: la storia non finisce con le sconfitte. Mettiamo in fila i fatti “veri”. Hezbollah, il potente gruppo libanese sostenuto dall’Iran, è in ritirata dopo mesi di strikes israeliani che hanno decimato le sue posizioni al confine. Hamas ha visto il suo intero stato maggiore fuori combattimento: leader come Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh eliminati, con recenti attacchi persino a Doha, in Qatar, che hanno colpito la dirigenza esiliata.
Gli Houti in Yemen, altro proxy iraniano, sono a pezzi: la loro leadership è fuggita da Sanaa dopo strikes israeliani e Usa che hanno ucciso figure chiave come il primo ministro Ahmad Ghaleb al-Rahwi. La Siria ha finalmente buttato fuori Bashar al-Assad nel dicembre 2024, con un interim government guidato da ex ribelli di Hayat Tahrir al-Sham, aprendo spazi per una ridefinizione regionale. E infine l’Iran: Israele ha osato l’inosabile con una campagna di strikes nel giugno 2025 contro siti nucleari e militari, segnando un conflitto diretto che ha indebolito Teheran senza scatenare una guerra totale.
Ecco il paradosso. Nonostante l’impopolarità, Israele mantiene una posizione di forza nello scacchiere mediorientale. Forte del sostegno americano – basti pensare alla visita del segretario di Stato Marco Rubio a Gerusalemme in queste ore, dove ha incontrato Netanyahu al Muro del Pianto per discutere della guerra contro Hamas – e del silenzio assenso dell’Arabia Saudita. Riad, pur condizionando la normalizzazione a uno Stato palestinese, ha evitato condanne esplicite e continua a preparare un deal of the century con Israele, come indicato da fonti diplomatiche. Questa tacita alleanza contro l’Iran cambia tutto.
La narrazione pro-pal europea, con le sue critiche selettive e la repressione delle proteste, appare non solo irrilevante ma anche ipocrita: ignora come le azioni israeliane abbiano ridisegnato la mappa del potere, riducendo minacce concrete. Netanyahu cammina su un sentiero stretto: deve gestire l’interno, con proteste contro il suo governo, e l’esterno, con pressioni globali. Ma non è impraticabile. Se Bibi sfrutterà questa forza relativa, potrebbe trasformare la sconfitta del 2023 in una vittoria strategica duratura. Il Medio Oriente non è un salotto ideologico: è un’arena dove contano i fatti, non i slogan.