Skip to main content

Perché difendo il cellulare sul banco. La versione di Ciccotti

Il recente divieto dell’uso dello smartphone in classe è sicuramente dettato da una legittima preoccupazione educativa da parte del ministro Giuseppe Valditara. Epperò, il telefonino, filosoficamente centrale nella nostra vita (Maurizio Ferraris), è ormai una estensione mcluhaniana del corpo umano. Un braccio che non va “potato” ma “regolamentato”, suggerisce Eusebio Ciccotti, saggista ed ex preside di liceo

Ho delle perplessità circa l’intervento del ministro Giuseppe Valditara riguardo la presenza del telefono cellulare in classe, sul banco. A una prima osservazione il divieto risponde a criteri di educazione inattaccabili: non si può bisbigliare al telefono, ricevere notifiche con il bip, o chattare mentre il docente spiega o interroga. La non presenza del cellulare sul banco dovrebbe (poi tornerò sull’uso del condizionale) garantire la concentrazione del discente. È così?

Qui spunta fuori quel’“omino che mi gira nello stomaco” e mi crea dei dubbi (per citare una nota frase di E.G. Robinson in Double Indemnity – La fiamma del peccato, 1944, Billy Wilder) riguardo al divieto. “Omino” messo in moto dall’esperienza di 43 anni di scuola, di cui 14 come ex preside di un grande polo liceale e tecnico. Perplessità, si badi, che nulla tolgono al saggio intervento educativo del ministro. Quell’instancabile “omino”, usando il metodo galileiano, non mi lascia in pace: mi invita a sottoporre ogni “teoria” alla verifica dell’esperimento (come spiega bene Ernst Cassirer, parlando di Galileo, nella sua magistrale Storia della filosofia moderna). Più avanti parlerò dell’esperimento sul campo. Ora, consentitemi di spendere due parole circa la natura filosofica del telefonino (“il compagno e il testimone della nostra vita”: Maurizio Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, 2007).

Il cellulare come estensione macluhaniana

Marshall McLuhan (che abbiamo conosciuto in Italia negli anni Settanta grazie allo studioso Gianpiero Gamaleri), filosofo, critico letterario e mass mediologo canadese, coniò la teoria del «villaggio globale» tramite il famoso concetto, il medium è il messaggio; rivelò come i mezzi di comunicazione di massa (soprattutto radio e TV) fossero de facto «estensioni del nostro corpo». L’uomo tecnico (non ancora tecnologico) degli anni Sessanta sentiva e vedeva, secondo lo studioso canadese, usando oltre agli occhi e alle orecchie, gli “occhi” della telecamera della TV e le “orecchie” della radio (oltre che dell’audio della TV).

Da almeno tre decenni la nostra mano destra o sinistra “termina” con un dispositivo telefonico audio, nel tempo divenuto anche mini-cinepresa. Siamo continuamente in collegamento (connessi) con il mondo circostante in tempo reale (live): con soggetti umani, soggetti animali, con la vita della città (strade, piazze, architettura, ecc.), con la natura (quello che rimane). Con i nostri pensieri, con il linguaggio che, wittegensteinamente, ci abita.

Evitare l’amputazione

Togliere lo Smartphone dalla mano di un adolescente, ove è saldamente saldato, nel quale vi sono i suoi pensieri, le sue inquadrature sul mondo, il suo pensiero-linguaggio, tocca la sua sicurezza psicologica di adolescente, significa  non solo amputargli un arto, ma togliergli, d’imperio, la possibilità di vedere e di sentire il collegato con l’altro (amico, famigliare, parente).  Una forte privazione su una mente ancora in formazione. Su un soggetto pieno di insicurezze tipiche dell’età e che il medium, in gran parte, riesce a tamponare. L’adolescente, se lo osservate attentamente in classe, ha bisogno di un contatto visivo e fatico con quel medium posto accanto al suo quaderno, con la cover colorata, il pupazzetto a mo’ di ciondolo: in quell’oggetto tecnologico c’è una parte di sé, c’è il suo mondo: quella estensione psico-fisica gli dà sicurezza.

Vietare la presenza del cellulare sul banco per legge non aiuta l’adolescente. Meglio arrivare tramite un percorso formativo al non uso improprio del medium durante la lezione. L’adolescente, che sta seguendo una lezione o una interrogazione di un suo compagno, se la “didattica” è coinvolgente non sentirà il bisogno di sbirciare o chattare sul/con il device.

Qualunque studente di psicologia al primo anno di corso può spiegare che la proibizione, genera reazione. Imporre divieti non risolve il problema. Davanti alla consegna obbligata del cellulare, diversi adolescenti consegneranno un dispositivo “scatorcio” e quello buono rimarrà in tasca, nella cinta dei pantaloni, nei calzettoni, in mezzo alle gambe. E, appena il docente guarda da un’altra parte della classe, zac!, eccolo impugnato.

Naturalmente, durante una verifica scritta, qui il caso è diverso, il dispositivo non si può usare. Chi vi ricorre va incontro, giustamente, a sanzioni, poiché sta falsificando la prova.

L’esperimento sul campo 1. Il cellulare “cartina al tornasole”

Dunque, lo studente, qualora lo desideri, dovrebbe avere la possibilità di tenere il proprio cellulare sul banco (come accadeva negli anni passati). Ovviamente, silenziato. Io prof, sto facendo lezione. Analisi filologica e retorica di un canto dell’Inferno di Dante.  Funzioni esponenziali. Formule chimiche. Il neoclassicismo di Antonio Canova. Su 28 ascoltatori, 15 guardano continuamente le notifiche sul cellulare. Alcuni “messaggiano” senza sosta. Non si tratta di interventi occasionali e di pochi secondi. A questo punto mi debbo porre una domanda e darmi una risposta. La risposta è: gli alunni si annoiano. Significa che: non so spiegare; non so comunicare; non ho empatia; il mio tono è monocorde; non ho capacità di sintesi… Debbo avere, io docente, l’onestà etica di imparare da un mio collega più “bravo”. Oppure, dimettermi e andare a fare l’operaio, il magazziniere, il postino, il dirigente di azienda, il bancario (senza offesa per tali rispettabili impieghi). Il cellulare è la cartina al tornasole delle capacità didattiche di ogni docente.

Un divieto didatticamente inutile

Visto che, io studente, avrò le verifiche scritte e orali di ciò che viene spiegato in classe, cosa ti importa, caro docente, se sto usando il cellulare? Debbo sistemare un appuntamento; formare la squadra per la partita del pomeriggio con i miei compagni; pianificare l’uscita con “amore” al centro commerciale; comprare il pane prima di tornare a casa (me lo ha ricordato ora mio padre); sbirciare una “storia” su Instagram…

Se ho “perso” la lezione è perché dovevo chiarirmi con la mia ragazza o il mio ragazzo, pazienza, studierò a casa. Ora, a 15 anni, alle 10.25 di lunedì era per me necessario scusarmi con “amore”, perché ieri l’ho offesa. Se mi vieti il cellulare, nessun divieto o circolare bloccherà il mio sguardo fisso, vuoto, imbambolato, verso il docente, le cui parole sono un ronzio, perché ora sto pensando a lei o a lui.  Caro adulto, scusami, ma non riesci a “vedere” il mio mondo.

Adulto, e tu?

Grazie ai TG seguiamo i nostri politici, tutti acculturati, dalla sciolta favella, tipo “noi l’avevamo detto”, ripresi mentre escono dai palazzi romani, di gran carriera, con il codazzo di collaboratori, e…  con l’immancabile estensione mchluhaniana: braccio-mano-cellulare-orecchio. Eppure, stanno lavorando! Nessuno oserebbe metterlo in dubbio. E il giornalista, cortesemente, attende, per l’intervista volante… Nessuno dà loro del maleducato. Oppure: prendete i salotti politici televisivi. Cosa hanno in mano i politici, e gli intervistatori? Appena non sono inquadrati smanettano sul device. Ascoltano (così sembra) smanettando.

Ancora. I parlamentari nelle due Aule: mentre il collega tiene il suo intervento, ascoltano “stando” sul cellulare. Esattamente quello che, in una aula scolastica, stanno facendo simultaneamente i loro figli: uniti, padri e figli, all’interno di uno splendido, sincronico, etico, split-screen. Son tutti maleducati? Niente affatto! Quei parlamentari stanno risolvendo questioni urgenti per il/la Paese/Nazione (così noi ci figuriamo). Poi recupereranno l’intervento del collega onorevole. Io adolescente ho perso la spiegazione dell’argomento? Bene, mi assumo la responsabilità di recuperarla. Dobbiamo capire che il telefonino ha riconfigurato, filosoficamente, la nostra vita-mondo (Ferraris).

Esperiemento sul campo 2

La questione, in classe, è un’altra. Il prof/la prof è talmente pieno/a di sé da non tollerare che qualcuno non lo “segua”, non lo/a “guardi” estasiato, incantato, in trance. È convinto/a che sia il miglior docente dell’Istituto. Siccome il marito/la moglie non lo ascolta mai, lo stesso i propri figli, per una palese compensazione freudiana, pretende con violenza che i “miei” (permanente abuso del possessivo) studenti “mi seguano”. E non capisce che se molti hanno lo sguardo perso, e il pensiero chissà dove, non dipende dall’ascoltatore.

Forse, caro docente, manchi di empatia, sei esageratamente logorroico, ripetitivo, non segui “un filo logico”.  Pronto a colpevolizzare lo studente: “Sua figlia, cara signora, non ha concentrazione durante la lezione. Si distrae”.  Poi a casa, tutti si lamentano: “Mamma, papà: non lo/la seguiamo: facciamo finta. Non sa spiegare.  Ci detta i suoi “appunti” che siamo costretti a imparare a memoria. Se usiamo il libro di testo, o cambiamo una sua parola, ci abbassa il voto”.  Vietare il cellulare non occulta la maladidattica.

Sperimento sul campo 3 (Una storia vera, tra le tante)

Federica (nome di fantasia), 14 anni, primo anno delle superiori. Riservata, silenziosa. Va in bagno. Passano diversi minuti. Non torna. Inizialmente neanche la compagna ci fa caso. Il suo cellulare è, insieme agli altri, in una apposita tasca porta-cellulari, appesa alla parete. Dopo un’ora, docente e collaboratrice scolastica sono davanti alla porta del bagno. Federica non risponde, soffoca i singhiozzi, piange, non vuole aprire. Arriva la preside. Niente, Federica non apre. Cosa si fa? Tremila soluzioni. Si chiama il 118?  I Vigili del fuoco? La porta va buttata giù? Immaginate l’agitazione di decine persone. La madre e il padre, rintracciati dopo alcuni tentativi, si precipitano dal lavoro, con due vetture, da due luoghi diversi, rischiando incidenti stradali. La ragazza non vuole aprire. È passata un’ora e mezza. Tutti via. Lei è ora con la sola madre di là dalla porta, e il personale del 118. La ragazza decide di aprire. Il giorno dopo, per via riservata, si saprà che l’adolescente, sorpresa da un abbondante flusso del ciclo, era riparata in bagno. Avrebbe voluto chiamare la mamma, ma il cellulare non era nelle sue mani. Si sentiva inadeguata, non in ordine. Si vergognava. Non poteva rientrare in aula.

Buccia di cellulare

Caro ministro, Lei sta facendo molto per la scuola, ma il cellulare rischia, mi perdoni, di trasformarsi in una buccia di banana. Proibirlo in classe significa non accettare la visione del mondo dei Millennials, e si rischia di creare un fossato tra educatori e discenti. Sarebbe sufficiente vietare che si parli al telefono in classe, durante la lezione.  Semplicemente. Se poi un adolescente vuol consultare una enciclopedia, rispondere per tre due secondi ad un amico, o viaggiare su Instagram durante la lezione, a te, caro docente, cosa interessa? Niente di grave e offensivo nei tuoi riguardi. Lo valuterai serenamente nelle verifiche scritte e orali: senza vendetta.  Chiediti, piuttosto, come mai tutta la classe segua a bocca aperta il tuo collega di filosofia o di matematica, pur avendo i ragazzi il cellulare sul banco.


×

Iscriviti alla newsletter